LO SPECIALE sulla guerra

Affacciati sul porto di Odessa, dove l'Ucraina ha già vinto

La città sorride, ma se Putin si avvicina tira fuori i denti. Il carattere di un porto instancabile raccontato da Dmytro Barinov, Yaroslav Trofimov e i suoi abitanti

Micol Flammini

Nella struttura che resiste a ogni attacco c’è un sabba senza diavoli, il lavoro è convulso, tra i mercantili, le gru, il grano e l’acciaio, qui si sfama il mondo e si esporta più di prima

Odessa, dalla nostra inviata. Prymorskyi Boulevard a Odessa sembra un teatro. Abitanti e visitatori si fanno foto dove dei cartelli timidi dicono che è proibito, ma alle loro spalle c’è il porto ed è un'emozione guardarlo lavorare, non si può non fotografare. E’ appassionante tutto quel movimento di braccia meccaniche, quei camion che vanno e vengono e poi lo scivolare dei mercantili sulle acque del Mar Nero, il mare di guerra. Offre uno spettacolo quotidiano, non c’è un programma, basta arrivare dal mattino presto fino alla sera, basta evitare di affacciarsi quando suonano gli allarmi antiaerei, perché quelli sono gli unici momenti in cui il porto si ferma, per poi rifarsi vivo, convulso, un parcogiochi dell’economia ucraina. 

 

Nel bel mezzo di tanto affaccendarsi c’è poi l’ex albergo che guardava il porto ed è stato colpito durante un attacco, e anche lui è il soggetto ricorrente di foto ricordo da tempi di guerra come tante strutture turistiche che qui a Odessa sembrano più immobili che altrove, ma hanno l’aria abusata del vento di mare, sembrano nate immobili, belle immobili. E poi c’è il porto a dare movimento, il resto può pure rimanere a bearsi della sua bellezza cristallizzata. C’è il porto a dire che questa città è viva e a farsi guidare dal movimento delle gru, a sentire i tonfi, gli scivolii, i raspi sembra quasi di sentire un sussurro. Sembra ci sia una regia dietro al battito convulso di questa struttura e tutto si muove a un ritmo ben stabilito. Basta fermarsi, guardare con attenzione, occorre poco ed ecco che irrimediabilmente appare chiaro. Mentre i macchinari si muovono, mentre i mercantili partono, mentre i silos si svuotano, tonfo dopo tonfo, fruscio dietro fruscio, eccoli che scandiscono tutti in coro: russkij voennyi karabl’ idi na chuj. Non è un porto normale, ha la frenesia di un sabba, ma senza diavoli. E gli ucraini, odessiti e non, su Prymorskyi Boulevard ridono, perché a loro non sfugge questa coreografia di guerra e di rivalsa, la fotografano, commentano, quasi battono le mani, perché la storia ucraina nel Mar Nero è finora un successo duraturo e anche se la guerra è una questione di terra e di aria, senza questo fragore portuale il paese sarebbe in ginocchio

 

“Nave da guerra russa vaffanculo” (russkij voennyi karabl’ idi na chuj) fu il primo motto dell’invasione e veniva da questo mare laborioso e infestato. Ora che sono trascorsi due anni dall’inizio della guerra totale, l’Ucraina, che non è una potenza marittima, ha distrutto molte navi da guerra russe, “prima potevamo vederle da qui”, dice indicando il mare Dmytro Barinov, vice capo dell’Uspa, l’autorità che sovrintende tutti porti ucraini. “Ora non si avvicinano più, sanno che possono essere colpite”. Il gioco nel Mar Nero è stato chiaro e puntuale da parte di Kyiv, da quando la Russia ha deciso che non voleva più rispettare l’accordo firmato con le Nazioni Unite e la Turchia per consentire la libertà di movimento dei mercantili carichi di grano, l’Ucraina ha dovuto arrangiarsi per allontanare gli attacchi russi contro le sue infrastrutture portuali, per creare delle rotte sicure per le navi che approdano nei suoi porti e soprattutto per convincere gli armatori che passare per il Mar Nero in sicurezza era fattibile senza correre troppi rischi. Nessuno di questi tre punti era scontato. 

 

“Quella nel mare è la grande vittoria dell’Ucraina del 2023, anche se è stata oscurata dalle necessità di terra: è più difficile spiegare la battaglia navale”, dice al Foglio Yaroslav Trofimov, giornalista del Wall Street Journal nato in Ucraina e autore del libro Our enemies will vanish. “Gli ucraini hanno colpito decine di navi, soprattutto quelle che servivano agli attacchi anfibi, erano vecchie navi grandi che un tempo venivano prodotte nei cantieri di Danzica. Poi Kyiv è arrivata fino al porto russo di Novorossiysk, ed è stato un messaggio per l’esercito russo, voleva dire che gli ucraini avevano trovato il punto debole e potevano arrivare ovunque. Il risultato è stato che il porto di Odessa ora esporta a pieno ritmo”. Allontanate le navi russe che ormai non si vedono più dalla costa e decine sono nei fondali, l’esercito ucraino ha provveduto a tracciare delle rotte sicure, a creare un corridoio senza rischi di cui gli armatori potessero fidarsi. Poi c’è il lavoro del porto, che dal 24 febbraio ha cercato in ogni modo di rimanere attivo. “Il porto – dice Barinov – è la porta dell’Ucraina. Siamo stati fermi per i primi sei mesi dell’invasione, poi sono arrivati gli accordi del 20 luglio del 2022 e nonostante le nostre infrastrutture fossero state ferme e sotto attacco, il primo agosto siamo stati in grado di garantire la partenza del primo mercantile. Abbiamo partecipato alle ispezioni a Istanbul, come era previsto dagli accordi, e in ottobre avevamo registrato tre milioni e trecentomila tonnellate di beni, grano e metalli. Da quel momento la Russia ha iniziato a rallentare le ispezioni,  le faceva durare ore dicendo che non poteva limitarsi a controllare soltanto il carico ma doveva fare le cose in modo più approfondito. Poi ai russi era diventato impossibile lavorare dopo le tre del pomeriggio: insomma, le intenzioni erano chiare”. 

 

Vladimir Putin disse che gli accordi presi nel Mar Nero non avevano senso perché il grano che veniva esportato dai porti ucraini non veniva destinato ai paesi poveri, ma alle nazioni ricche: “Putin sa bene cosa cambia con il grano se un mercato come l’Ucraina viene bloccato. I mercantili che partono dai nostri porti non sono tutti destinati ai paesi in via di sviluppo, ma più grano c’è in circolazione più il prezzo si abbassa, è sempre stata questa la logica dei traffici commerciali e il capo del Cremlino lo sa bene. Il mercato ucraino non è sostituibile, non ci sono altri porti e i nostri partner ne sono consapevoli. Più del 90 per cento dei trasporti mondiali è in mare e chi aveva scelto la rotta nel Mar Nero si è fidato di noi, anche perché  non c’era modo di rimpiazzare queste rotte”. Ma qualcuno è rimasto fedele ai porti ucraini facendone anche una questione morale: “Abbiamo spesso parlato con i capitani dei mercantili e più di una volta ci siamo sentiti rispondere che non era soltanto un lavoro, ma era una responsabilità perché metà del World food program dipende dall’Ucraina. Prima del 24 febbraio producevamo 80 milioni di tonnellate di grano, l’obiettivo, secondo il ministero dell’agricoltura, era di arrivare a 100 milioni. Con l’inizio dell’invasione, il prezzo del grano è schizzato, tutti hanno capito che se non venivano risolti i problemi nel Mar Nero il danno sarebbe stato globale”. 

 

C’è una grande Odessa e c’è una piccola Odessa, la piccola è il porto della città, la grande invece è costituita da tre strutture: Odessa, Chornomorsk e Pivdenny. “Tra la città e il porto – spiega Barinov –  c’è una storia di simbiosi, hanno la stessa età, 230 anni. La storia di intere famiglie è legata al porto, se la struttura sta bene, la città sorride”. E infatti Odessa sorride e Oksana Alekseeva, che dal 2014 lavora come volontaria per sostenere i soldati e le loro famiglia, racconta che questo sorriso è sublime e immodesto, “viene chiamato il sorriso di Dio, ma poi, dal sorriso gli odessiti sanno tirare fuori i denti”. Alekseeva era un’imprenditrice aveva aperto due negozi in città in cui vendeva prodotti sportivi, nel 2014 ha chiuso tutto e ha capito che se i russi continuavano a rosicchiare parti di Ucraina allora non avrebbe avuto più alcun senso fare sport o aprire un negozio, bisognava ripartire dall’urgenza. “In tanti abbiamo cambiato quotidianità, la vita qui è diventata una catena, dobbiamo pensare l’uno all’altro, tra conosciuti e sconosciuti, bisogna pensare a chi è al fronte e a chi rimane, ai divorzi, ai bambini, a chi è sopravvissuto, a chi non si perdona di essere sopravvissuto. Non siamo rabbiosi, soprattutto qui a Odessa dove sembra che prendiamo tutto con ironia, sicuramente siamo stanchi perché ogni volta che superiamo un ostacolo, ne vediamo un altro davanti, e poi ancora un altro. E’ legittimo chiedersi quando finiranno i muri, non vogliamo la condanna di sentirci Sisifo. La catena comunitaria che si è creata ci permette di saltare sopra all’ostacolo invece di doverci arrampicare”. Anche Barinov fa parte di questa catena: “Prima dell’attacco ero a Kyiv, poi ho iniziato ad aiutare i rifugiati. Ho rimesso piede nel porto il primo marzo. Dovevamo pensare alle famiglie dei lavoratori dei porti che si trovavano nella zona di Mariupol, Donetsk, Berdyansk, chi è riuscito a fuggire adesso lavora qui o nelle altre infrastrutture, i nostri lavoratori in tutto sono circa seimila”. 

 

Barinov è di Mariupol, non vede la tomba di sua madre dall’inizio dell’occupazione, non sa neppure se sia stata distrutta. Il piccolo appartamento in cui viveva non c’è più e nella città dell’acciaio e dell’assedio lui non ha più nulla e nessuno. Come tutti ha visto l’Ucraina cambiare, per un breve periodo ha temuto il peggio, “ma io sono ottimista, sono un ucraino del sud, di mare”. Non sono soltanto il sud e l’aria di mare a rendere Barinov ottimista, ma sono anche i numeri che parlano di un successo che lui ha contribuito a costruire: “Dal 20 luglio 2023 – quando la Russia non ha voluto rinnovare gli accordi sul grano – al 20 febbraio 2024 abbiamo esportato 26 milioni di tonnellate di beni, 18 di grano, il resto metalli. Il traffico aumenta di mese in mese, giovedì nella grande Odessa 17 navi hanno lasciato i porti, 12 sono entrate, 29 in tutto. Oggi ce ne sono 45 in operazione e tutto nonostante gli attacchi di missili e di droni di questa notte. Questo mese abbiamo raggiunto il record di volumi”. 

 

Odessa è un successo e oggi si sente più sicura, può guardare il teatro del porto, sente la guerra ma si beffa dei pessimisti. In dieci anni di conflitto questa città si è trasformata, ha sempre saputo di essere un centro del mondo, desiderata e sfrontata, fraintesa in malafede: “Nel 2014 l’idea di Putin non era di fermarsi alla Crimea, ma era andare avanti fino a Odessa, prendere quella che lui chiama ancora Novorossija. Davvero pensava che le regioni dell’est dell’Ucraina sarebbero volute diventare russe – spiega Trofimov – nel 2014 esisteva una componente di popolazione filorussa, legata alla speranza che con la Russia si sarebbe potuti stare meglio, con stipendi più alti. E Putin credeva che in uno stato come l’Ucraina, che quell’anno sembrava cadere a pezzi, i cittadini non ci avrebbero pensato due volte a cambiare paese. Aveva sovrastimato la simpatia filorussa che si è infranta quando gli ucraini hanno iniziato a vedere come si viveva nella parte del paese che la Russia iniziava a occupare, vedevano il caos, la povertà, la criminalità e le illusioni sono svanite, Mosca ha smesso di essere sinonimo di benessere. In questi dieci anni è successo che l’est dell’Ucraina è diventato più antirusso del resto del paese perché ha subìto le conseguenze più gravi delle ambizioni di Mosca, ma Putin non ha colto i cambiamenti di questi dieci anni, per questo ha mandato un esercito piccolo e impreparato che ha incontrato invece una resistenza determinata di persone che tra l’Ucraina e la Russia non avevano più nessun dubbio”. Odessa è tra le città senza dubbi, sorride, ma se Putin si avvicina tira fuori i denti. 

 

Lo speciale del Foglio a due anni dall'invasione russa

 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.