Un soldato di guardia fuori da un seggio elettorale a Lahore, Pakistan, l'8 febbraio 2024 (AP Photo/KM Chaudary) 

editoriali

In Pakistan l'esercito vuole vincere sempre

Redazione

I voti ai candidati “indipendenti” di Khan sono un messaggio di protesta

Entro il 29 febbraio tutto può succedere in Pakistan. È il giorno in cui, secondo la Costituzione, i partiti politici devono arrivare alla formazione di un governo: in questo caso, esattamente tre settimane dopo le elezioni generali che si sono svolte l’8 febbraio scorso, fra connessioni internet interrotte, accuse di brogli, violenze e disinformazione. Tutto può succedere, ma c’è una certezza nella testa degli osservatori internazionali e dei pachistani: a vincere, come sempre, sarà l’esercito. E le concessioni che vorranno fare per controllare ancora una volta il sistema democratico.

 

Nessuno per ora ha la maggioranza assoluta di 169 seggi all’Assemblea nazionale. I candidati del partito Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) dell’ex premier Imran Khan, in carcere per svariate accuse e un tempo pupillo dei generali poi caduto in disgrazia, hanno raggiunto il maggior numero di seggi, 93, una sorpresa per gli osservatori internazionali. Ma sono stati costretti a candidarsi da indipendenti perché così ha deciso la Corte suprema pachistana poco prima del voto. La Pakistan Muslim League Nawaz (PML-N) dell’altro ex premier, Nawaz Sharif, è arrivata seconda con 75 seggi, e lui ha già detto che sarà premier. Il Partito popolare pakistano (PPP) di Bilawal Bhutto Zardari ha conquistato 54 seggi.

 

Sono queste le tre forze in campo, in un Parlamento frammentato dove l’unico ad avere il sostegno dell’esercito pachistano è Nawaz Sharif, il cui partito ora sta cercando di corteggiare gli indipendenti eletti e chiunque sia disposto a fare un’alleanza. Qualunque sarà il risultato dei negoziati, secondo diversi analisti i voti al Pti di Imran Kahn dimostrano che i pachistani stanno cercando di boicottare l’autoritarismo dei militari. Ma il desiderio di cambiamento di un sistema clientelare e dinastico li porta tra le braccia di un populista ex fiancheggiatore dei militari come Imran Kahn, che ha fatto del suo martirio politico un simbolo. E la situazione, per il paese definito una volta dell’ex segretaria di stato americana Madeline Albright “un mal di testa globale” rischia perfino di peggiorare.

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