L'Europa non è pronta ad affrontare una nuova tempesta arancione. Urgono ripari
Una rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca sarebbe più pericolosa della precedente. Ucraina, Nato, Cina, politiche commerciali, ambiente sono tutti dossier preoccupanti. Che cosa può fare adesso l’Unione europea
“An orange storm could be coming – and we need to be ready”
(Jonathan Freedland, “Storm Trump is brewing, and the whole world needs to brace itself” - The Guardian, 5 gennaio 2024)
Donald Trump, il “presidente arancione” (dal colore della sua abbronzatura), ha vinto con ampio margine le primarie in Iowa e New Hampshire e ormai è praticamente certo che si aggiudicherà le primarie repubblicane. Le nuvole di una nuova tempesta arancione si stanno accumulando e stanno diventando sempre più dense e minacciose. Biden o, meno probabile, una condanna che impedisca a Trump di candidarsi possono ancora disperdere la tempesta. Se però questo non fosse il caso, è pronta l’Europa ad affrontarne l’impatto e le inevitabili conseguenze?
Temo che la risposta a questa domanda sia negativa. No, in questo momento l’Europa non è pronta ad affrontare la tempesta arancione e le relative conseguenze. Di conseguenza dovrebbe correre rapidamente ai ripari. Ma lo farà?
In questo articolo mi prefiggo di (I) ricordare rapidamente i problemi che la Presidenza Trump (2017-2021) ha creato all’Europa, (II) analizzare le ragioni per cui l’Unione Europea è impreparata a una nuova tempesta arancione, (III) definire la natura di tale tempesta e perché è più pericolosa della precedente, e (IV) identificare alcune possibili iniziative che l’Unione Europea e i suoi stati membri possono prendere per prepararsi al suo arrivo ed eventualmente, nel caso si concretizzasse, limitarne i danni. Naturalmente, prendere misure precauzionali non è senza costi e c’è un prezzo da pagare. Tuttavia, argomenterò che i costi delle iniziative suggerite sono ampliamente compensati dai benefici che si possono ottenere anche nel caso in cui la tempesta arancione dovesse dissolversi di qui a novembre.
(I) La prima tempesta arancione
L’elezione di Trump nel novembre 2016 colse le cancellerie europee completamente impreparate, tanto erano sicure che Hillary Clinton l’avrebbe spuntata. Trump era un’entità completamente sconosciuta, un miliardario populista ed etno-nazionalista che nella campagna elettorale aveva avanzato idee, sovente in termini iperbolici, che rimettevano in discussione l’ordine mondiale che gli stessi Stati Uniti avevano creato. Negli anni che seguirono, alcune di queste idee si concretizzarono: gli Stati Uniti lasciarono gli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico, la Transpacific Trade Partnership e la Transatlantic Trade and Investment Partnership negoziate dall’Amministrazione Obama furono abbandonate, vennero imposte tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio e, nel caso della Cina, gli Stati Uniti introdussero tariffe su una vasta gamma di altri prodotti, l’Organizzazione Mondiale del Commercio fu portata a uno stato di paralisi. In campo geostrategico, Trump intrattenne relazioni amichevoli con diversi autocrati, mentre in parallelo rimise parzialmente in discussione i legami transatlantici. In particolare, sostenne la necessità di cambiare la funzione e gli obiettivi della Nato e mise in dubbio l’automaticità di un intervento statunitense nel caso un paese membro fosse stato aggredito militarmente. Le relazioni con diversi paesi europei si fecero molto più difficili.
Tuttavia, Trump era anche aperto al negoziato e tra il 2017 e il 2020 l’Unione Europea e i suoi stati membri cercarono di trovare un modus vivendi con l’Amministrazione Trump. I leader europei si resero conto che, di fronte alla potenza americana e alla debolezza dell’approccio comune europeo di politica estera, era necessario assicurare nel breve periodo una convivenza il più possibile non conflittuale con l’Amministrazione Trump, anche al prezzo di essere di tanto in tanto bullizzati dal presidente americano.
Una tale situazione di implicita subordinazione era però chiaramente insoddisfacente e questo condusse le istituzioni europee e gli stati membri a rilanciare l’obiettivo di un’“autonomia strategica aperta” al fine di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti e perseguire autonomamente i propri obiettivi di politica estera, ma i progressi fatti in questo campo sono stati fin qui piuttosto limitati.
L’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti nel novembre 2020 produsse un sospiro di sollievo in Europa (e non solo in Europa). Il nuovo presidente era chiaramente intenzionato a riannodare i legami politici e rafforzare le alleanze militari con i propri alleati. Inoltre non aveva le simpatie trumpiane per i vari autocrati sparsi attorno al mondo. Certo, non sarebbero mancate tensioni (per esempio in campo economico e commerciale), ma esse sarebbero rimaste circoscritte e ampiamente compensate da un rinnovato spirito di cooperazione transatlantica.
(II) Perché l’Unione Europea non è pronta
Dall’esperienza delle prima Amministrazione Trump, le classi dirigenti europee trassero quattro conclusioni, che si sono rivelate errate o inadeguate: (1) il trumpismo era un fenomeno transeunte e, con la fallita insurrezione del 6 gennaio 2021, la carriera politica di Donald Trump era finita; (2) con la fine del trumpismo, il Partito Repubblicano avrebbe progressivamente abbandonato le posizioni protezionistiche ed etno-nazionaliste e sarebbe tornato nell’alveo del conservatorismo liberista; (3) in ogni caso, la prima tempesta arancione si era certo manifestata con nubi minacciose e tuoni roboanti, ma aveva prodotto relativamente poche intemperie, le quali, bene o male, avevano potuto essere gestite. Di conseguenza, Donald Trump non era e non è da prendere alla lettera; e (4) a causa di (1), (2) e (3), non c’era più la necessità di accelerare i tempi per conseguire un’autonomia strategica aperta, anche perché c’erano più impellenti sfide a cui far fronte, in particolare la risposta economica alla pandemia (realizzata principalmente attraverso Next Generation Eu – NGEU) e l’appoggio militare ed economico all’Ucraina.
Va sottolineato che entrambi questi ultimi due sviluppi, se integrati coerentemente nel progetto di autonomia strategica aperta, avrebbero potuto accelerarne la realizzazione. Tuttavia, da soli non bastavano. Per contribuire efficacemente all’obiettivo dell’autonomia strategica aperta, essi avrebbero dovuto essere sostenuti e rafforzati da cambiamenti nel funzionamento delle istituzioni europee e dall’introduzione di ulteriori iniziative volte alla creazione di beni pubblici europei in senso lato (per esempio la creazione di una capacità fiscale centralizzata, il completamento dell’unione bancaria e finanziaria, il varo di una politica industriale comune, l’elaborazione di una politica dell’immigrazione condivisa), in grado di fornire nuova linfa ai processi di integrazione dell’Unione.
L’errata valutazione sulla possibilità di un ritorno di Trump alla guida degli Stati Uniti ha fatto sì che, nonostante l’impulso proveniente dall’aggressione russa dell’Ucraina, i progressi fatti in termini di difesa europea siano risultati fortemente insufficienti. Di conseguenza, continua ad esserci un gap temporale importante tra un possibile disimpegno statunitense nella Nato e la capacità dell’Europa di dotarsi di una credibile politica di difesa in grado di esercitare un effetto di deterrenza contro potenziali aggressori.
Lo stesso dicasi per quel che riguarda una politica estera europea. Su molte questioni, più che di posizioni comuni europee siamo in presenza di pareri più o meno condivisi tra gli stati membri, che faticano a trasformarsi in azioni concrete. Poiché all’interno dell’Ue non mancherebbero paesi che, nel caso di divisioni tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, per affinità ideologiche o interessi economici, si schiererebbero con questi ultimi, è difficile pensare che un eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca rinsalderà la coesione europea nel campo della politica estera. Per evitare la frammentazione delle posizioni europee, si sarebbe dovuto por mano alla questione della condizione dell’unanimità per poter prendere decisioni di politica estera e di bilancio. Invece, si è preferito mantenere la regola dell’unanimità e trovare espedienti per aggirarla, con risultati però subottimali.
In campo economico, dopo il successo di NGEU, la produzione di beni pubblici europei, necessaria per rendere l’economia più resiliente e più indipendente in alcuni settori strategici, ha fatto sì qualche progresso (si pensi a RePower Eu, all’European Chips Act o all’Eu Critical Raw Materials Act), ma è restata ben al di sotto di quel che sarebbe necessario per conseguire questi obiettivi. Una volta messi alle spalle gli shock della prima presidenza Trump e della pandemia e stabilizzata la situazione in Ucraina, il richiamo del ritorno al business as usual, con le priorità nazionali che prendono la preminenza su quelle europee, è risultato troppo forte. Inoltre, a partire dalla seconda metà del 2022, il cambiamento del governo in Italia e i crescenti problemi interni in Francia, Germania e Spagna hanno determinato una riduzione del capitale politico utilizzabile per la trasformazione della governance europea. Tuttavia, quel che è soprattutto mancato è stata la capacità di elaborare nuove soluzioni a livello europeo che consentissero un balzo qualitativo verso un’Unione Europea più forte e solidale, in grado di fornire risposte efficaci ai problemi nazionali che gli stati membri stavano affrontando.
In una tale situazione, è chiaro che l’Unione Europea avrebbe molte difficoltà a far fronte allo shock destabilizzante prodotto da una nuova presidenza Trump.
(III) La natura della nuova tempesta arancione
La prima tempesta arancione provocò danni limitati in Europa. A molti di essi vi si pose rimedio attraverso un rilancio della cooperazione transatlantica quando Biden fu eletto presidente. Se i danni prodotti furono limitati e temporanei, ciò non significa che furono trascurabili. Basti pensare ai danni politici e ambientali generati dall’abbandono statunitense degli Accordi di Parigi. Non bisogna poi dimenticare i rischi che non si materializzarono poiché Trump non era più presidente. Per esempio, come avrebbe reagito la Nato all’invasione russa dell’Ucraina se Trump fosse stato ancora presidente? Inoltre, anche se fosse vero che nei quattro anni della presidenza Trump tuonò tanto, ma piovve poco, dobbiamo per questo attenderci lo stesso nel caso venisse rieletto presidente?
La seconda tempesta arancione, qualora si materializzasse, rischia di essere molto più virulenta della prima e questo per varie ragioni.
Anzitutto, il grado iniziale di impreparazione e caos della prima Amministrazione Trump fu molto elevato. Trump entrò nella competizione elettorale senza aver selezionato chi lo avrebbe coadiuvato in caso di vittoria. Una volta vinte le elezioni, l’establishment repubblicano propose e talora impose a Trump una serie di nomi in posti chiave. Queste persone avevano posizioni molto più moderate del nuovo presidente e, prima di dimettersi o essere cacciati, riuscirono a mitigare alcuni aspetti delle politiche della nuova amministrazione. Inoltre, molte posizioni di nomina politica di secondo livello restarono lungamente vacanti, ritardando e rendendo più difficile la trasposizione delle istruzioni dall’alto in politiche concrete. Infine, diversi esponenti repubblicani nel Congresso appoggiavano solo in parte le politiche proposte dal nuovo presidente. Ci volle dunque tempo prima che Trump potesse far adottare alcune delle misure più radicali che aveva annunciato durante la campagna elettorale. Non bisogna poi dimenticare che nel febbraio 2020 arrivò il Covid, che prese in ostaggio l’agenda presidenziale fino alle elezioni di novembre.
La situazione attuale è molto diversa da quella del 2016. Se Trump continua a essere l’impersonificazione dell’imprevedibilità e del caos, il gruppo che lo circonda è molto più coeso e professionale che nel passato ed è in grado di sistematizzare e tradurre in politiche concrete questa imprevidibilità e caos. Inoltre, con l’assistenza dell’Heritage Foundation, il team di Trump sta già preparando una lista di persone che, una volta Trump rieletto, possono immediatamente assumere posti di management nell’amministrazione federale. Mentre durante la prima presidenza, Trump aveva faticato a riempire i 4.000 posti apicali disponibili attraverso lo spoils system, questa volta si propone di controllare la burocrazia federale attraverso la rapida nomina di 50.000 persone a lui fedeli, rimuovendo funzionari ed esperti considerati parte della “corrotta classe globalista”, che gestisce il deep state. In terzo luogo, gli eletti repubblicani nel prossimo Congresso saranno molto più trumpiani di quelli eletti nel 2016. Infine, se ottiene un secondo mandato, sulle questioni internazionali Trump avrà già pronte una serie di misure ben definite, elaborate da think tank come l’Heritage Foundation o l’American First Policy Institute, dove operano molti membri della sua passata Amministrazione. Di conseguenza, Trump ha già avanzato una serie di posizioni e proposte concrete che dovrebbero preoccupare seriamente i decisori europei. Vediamo più in dettaglio le più importanti tra di esse.
L’Ucraina. Per quel che riguarda l’invasione russa, Trump, al fine di stabilire “pace e stabilità nell’Europea dell’Est”, scavalcherebbe gli alleati europei per negoziare direttamente con Russia e Ucraina. Inoltre, Trump considera che i costi della guerra in Ucraina e della sua ricostruzione debbano pesare essenzialmente sull’Unione Europea, per cui non solo in futuro eventuali finanziamenti americani saranno molto limitati, ma gli Stati Uniti chiederanno anche all’Europa di essere rimborsati “per il costo di ricostituire gli stock di armamenti inviati in Ucraina”, stimato erroneamente da Trump in 200 miliardi di dollari. Naturalmente questo rimborso non avrà luogo, ma la richiesta è parte integrante di una strategia negoziale volta a segnalare che per l’Ucraina gli Stati Uniti hanno già dato e quindi il costo di futuri aiuti all’Ucraina ricade sull’Europa.
La Nato. Trump è un convinto nazionalista, che privilegia le relazioni bilaterali al multilateralismo. E’ sempre stato diffidente se non ostile nei confronti delle organizzazioni e degli accordi internazionali, che vengono visti come strumenti per sottrarre risorse agli Stati Uniti in favore dei suoi avversari. Già durante la sua presidenza, Trump aveva accennato a un possibile disimpegno degli Stati Uniti dalla Nato. Recentemente Trump non si è espresso al proposito, ma è difficile pensare, anche alla luce della sua posizione sull’Ucraina, che le sue posizioni siano cambiate. Nel suo programma (Agenda 47) indica che “dal primo giorno del mio ritorno alla Casa Bianca ritorneremo a una politica estera che che mette al primo posto gli interessi dell’America” e che “dobbiamo terminare il processo che iniziammo durante la mia Amministrazione che puntava a riconsiderare fondamentalmente lo scopo della Nato e la sua missione”.
Politiche commerciali e tariffarie. Il progetto America First prevede di favorire le imprese americane e i lavoratori che lavorano per esse a discapito delle imprese che producono al di fuori degli Stati Uniti (e del consumatore statunitense). Uno strumento essenziale per ottenese un tale obiettivo è l’imposizione di una tariffa del 10 per cento sulle importazioni statunitensi (che si aggiungerebbe a quelle già esistenti). Inoltre tariffe più mirate verrebbero imposte contro paesi che manipolassero il proprio tasso di cambio o fornissero sussidi a imprese o settori industriali. Trump ha tra l’altro bisogno di questi introiti per finanziare nuove riduzioni d’imposta. Tali misure protezionistiche non potrebbero restare senza risposta dal lato europeo (e non solo europeo), con il rischio di provocare una serie di conflitti commerciali su ampia scala. L’Unione Europea, che è un’economia più aperta degli Stati Uniti, risulterebbe particolarmente colpita dal disordine mondiale che ne conseguirebbe.
La Cina. Mentre al momento Stati Uniti e Europa convergono sulla necessità di perseguire un approccio di de-risking nei confronti della Cina, Trump va oltre e propone un vero e proprio decoupling. Se eletto, introdurrebbe un piano quadriennale volto a eliminare progressivamente la dipendenza statunitense dalle importazioni cinesi di “beni essenziali”, la cui definizione è molto ampia e include i prodotti farmacceutici, l’elettronica e l’acciaio. Controlli serrati verrebbero altresi introdotti per far si che la Cina non possa aggirare le restrizioni sulle importazioni attraverso paesi terzi. Inoltre, verrebbero introdotte nuove misure per impedire alle imprese americane di investire in Cina. Anche se non menzionato esplicitamente nel suo programma, è chiaro che Trump non lascerebbe ad altri la possibilità di occupare lo spazio lasciato libero dagli Stati Uniti. Se non vogliono incorrere in sanzioni, gli alleati degli Stati Uniti (e non solo) dovranno anch’essi decouple dalla Cina. Una tale politica avrebbe implicazioni importanti per l’economia europea, data l’ampiezza e la profondità delle sue relazioni economiche con il gigante asiatico.
Gli accordi di Parigi e l’ambiente. Trump è sempre stato un negazionista del cambiamento climatico. Per questo, come fece già nel 2017, ritirerebbe gli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi e tornerebbe a incentivare la produzione di energie fossili e il nucleare, rimuovendo in parallelo gli standards ESG (ambientali, sociali e di governance) per gli investimenti finanziari nonché le regolamentazioni esistenti volte a favorire l’espansione delle energie pulite. Inoltre, Trump rilancerebbe il settore automobilistico tradizionale attraverso la revoca degli incentivi in favore della produzione e la vendita di auto elettriche contenuti nell’Inflation Reduction Act od 2022. Tali misure, che mutatis mutandis verrebbero quasi sicuramente fatte proprie da altri paesi tiepidi o freddi sulle questioni del cambiamento climatico, vanificherebbero buona parte degli sforzi prodotti in questo campo dai paesi europei. Una tale situazione darebbe altresi vigore alle forze che sostengono che il passo della transizione climatica dev’essere fortemente rallentato.
Il sostegno a forze sovraniste ed etno-nazionaliste. Nel passato Trump si è detto sostenitore della Brexit e ha incontrato e interlocuito con leaders della destra radicale europea. Inoltre, ha ottimi rapporti con Viktor Orbán, con cui condivide forti affinità ideologiche, e vede con favore l’esperimento ungherese di democrazia illiberale. E’ difficile pensare che una vittoria di Trump non produrrebbe un contraccolpo significativo sul paesaggio politico europeo, alimentando uno spostamento verso la destra radicale. In un tale contesto, non si può dare per scontato che l’esperienza di democrazia illiberale resti confinata all’Ungheria e non si diffonda in altri stati membri. Se questo fosse il caso, ci sarebbe il rischio di una grave frammentazione politica all’interno dell’Unione Europea, che potrebbe avere pesanti effetti negativi sulla capacità decisionale delle sue istituzioni.
Le politiche migratorie e gli immigrati irregolari. Se Trump, come promette, chiuderà ermeticamente la frontiera meridionale degli Stati Uniti e realizzerà la deportazione di milioni di immigrati irregolari che vivono in America, questo solleverà una questione di diritti umani che non potrà lasciare l’Europa indifferente, creando tensioni tra le due sponde dell’Atlantico. Inoltre, la radicalità delle politiche anti-migratorie statunitensi potrebbe servire da riferimento alle forze etno-nazionaliste europee, che potrebbero proporre politiche simili.
Certo, così come fu il caso nel periodo 2017-2021, una nuova presidenza Trump non riuscirà che a realizzare una parte del suo programma eletorale. Tuttavia, questa volta Trump può mettere in opera molto più rapidamente le politiche che si prefigge e molte di queste politiche sono non solo molto più radicali, ma anche più dettaglaite e meglio definite di quelle avanzate nella campagna elettorale del 2016.
(IV) C’e’ ancora tempo per attrezzarsi contro la nuova tempesta arancione?
La tempesta arancione è dunque in via di formazione e si annuncia molto più potente e strutturata di quella di otto anni fa. C’è da sperare che le cancellerie e le istituzioni europee stiano preparando dei piani d’emergenza per non farsi cogliere impreparate. In cosa potrebbero consistere questi piani d’emergenza?
Purtroppo su alcune iniziative che avrebbero potuto rafforzare la posizione negoziale dell’Unione Europea nei confronti di un’eventuale Amministrazione Trump non ci sono più né i tempi (poiché comporterebbero cambiamenti nei trattati europei che richiedono anni per essere approvati) né il capitale politico per realizzarle. Rientrano in questa categoria l’eliminazione dell’unanimità nelle decisioni di politica estera e di bilancio o la creazione di un esercito europeo.
Questo non significa però che non si possa far nulla. Anzitutto, l’Unione Europea deve preparare un piano credibile per l’Ucraina. Se Trump vincesse le elzioni e la sua posizione dovesse rivelarsi essere quella di porre fine al conflitto con una soluzione che non fosse accettabile per l’Ucraina, l’Unione Europea e i suoi stati membri devono indentificare le risorse economiche e militari con cui intendono continuare a sostenere il paese aggredito in caso di disimpegno statunitense. Con una nuova Amministrazione Trump, l’Ucraina non sarà il solo punto di frizione tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea in politica estera. Di conseguenza, per evitare una situazione di stallo dal lato europeo, dovuta alle divisioni interne e alla regola dell’unanimità, gli stati membri dovranno far ricorso più sovente che nel passato alla cooperazione rafforzata. Questa cooperazione rafforzata dovrà far perno su una coalizione di paesi che si oppone a derive illiberali nelle relazioni internazionali.
In termini di politica di difesa, una parte dei paesi europei disposti a farlo dovrebbe iniziare a sviluppare piani per integrare le strutture difensive e aumentare le capacità di coordinamento operativo delle loro forze militari. Le spese per la sicurezza europea sono il triplo di quelle della Russia e di poco inferiori a quelle della Cina, ma la distribuzione di queste risorse è fortemente inefficiente. Di conseguenza, per progredire su questo fronte, bisognerebbe convocare una conferenza per razionalizzare e ottimizzare gli investimenti e i sistemi di difesa, come proposto da Mario Draghi nel suo intervento al Parlamento Europeo nel luglio 2022. In anticipazione della pressione che verrebbe esercitata da una possibile nuova Amministrazione Trump, sarebbe altresì opportuno concretizzare rapidamente una tale proposta, inizialmente anche solo con chi ci sta (nulla impedisce infatti agli stati membri di rafforzare la loro cooperazione in campo militare all’interno della Nato).
In campo economico, l’Unione Europea è meglio attrezzata in termini di strumenti operativi per contrastare politiche statunitensi che ne lederebbero gli interessi. La questione è se e come questi strumenti dovrebbero venire utilizzati. Prendiamo la questione delle tariffe generalizzate che Trump propone di introdurre sulle importazioni (ma lo stesso si applica per quel che riguarda il decoupling con la Cina). Come dovrebbe reagire l’Unione Europea: render pan per focaccia scatenando una guerra commerciale o replicare con misure mirate e dolorose per alcuni stati che hanno votato per i Repubblicani, in modo da risultare politicamente costose per Trump, incidendo però relativamente poco sul commercio bilaterale? Per rispondere a queste questioni bisognerebbe fin d’ora lanciare studi d’impatto in modo da valutare i potenziali vantaggi e svantaggi delle diverse opzioni che la futura Commissione Europea e i governi degli Stati Membri dovranno prendere in considerazione. Questo non solo consentirebbe di essere pronti ad agire nel momento in cui tali politiche dovessero concretizzarsi, ma anche, utilizzando strategicamente i risultati ottenuti, formare alleanze all’interno degli Stati Uniti, con gli altri paesi avanzati e le economie emergenti per contrastare la deriva protezionista statunitense quando questa è ancora in fase di elaborazione.
Sempre in campo economico, l’Unione Europea potrà meglio proteggersi dalla tempesta arancione dotandosi di un’insieme di beni pubblici europei (menzionati più sopra) che possono aumentarne la resilienza e cambiare il modello di crescita europeo rendendolo più robusto e sostenibile. Su questi aspetti rinvio al manifesto redatto da un gruppo di ex-policymakers europei e accademici (“The European Union at the Time of the New Cold War”) che sviluppa gli elementi chiave per rilanciare l’integrazione economica europea e rilanciare il ruole dell’Unione a livello internazionale.
Per quel che riguarda il cambiamento climatico, il (ri)abbandono degli Accordi di Parigi da parte degli Stati Uniti rischierebbe di far deragliare definitivamente gli sforzi per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione ed evitare che la temperatura del pianeta continui a salire. Per questo, anche in questo caso si dovrà cercare di formare una coalizione internazionale in grado di mantenere la rotta e spingere gli Stati Uniti a decarbonizzare anche al di fuori degli Accordi di Parigi. Non bisogna inoltre sottovalutare il fatto che le politiche trumpiane renderebbero molto più difficile convincere i cittadini europei che vale la pena pagare un prezzo per cambiare anticipatamente la propria auto o introdurre un nuovo sistema di rscaldamento se poi si ha l’impressione che questi sforzi vengano vanificati dal comportamento di altri attori a livello globale. Abbiamo visto in recenti elezioni come questi fattori, unitamente all’opposizione a misure di transizione ambientale nell’agricoltura e in alcune industrie, abbiano favorito l’ascesa di partiti di estrema destra negazionisti del cambiamento climatico. Questi sviluppi rendono più che mai necessario assicurare che i costi della transizione climatica ricadano molto più fortemente sulle classi più agiate (che sono anche quelle che hanno una produzione di carbonio molto più elevata della media della popolazione). Solo in questo modo si può continuare ad avanzare nella transizione climatica evitando che ampie fasce della popolazione si rivoltino contro di essa e alimentino le forze che negano o minimizzano i rischi del riscaldamento globale.
Infine, è probabile che una vittoria di Trump negli Stati Uniti rafforzi ulteriormente le forze etno-nazionaliste della destra radicale all’interno dell’Unione Europea, che vedrebbero in Trump la legittimazione delle loro posizioni, per esempio in termini di politiche anti-migratorie. Anche in questo campo è essenziale che le forze che intendono preservare il sistema liberaldemocratico si coalizzino a livello europeo e sviluppino una narrativa in grado di contrastare con successo la deriva illiberale della destra radicale. A questo proposito è importante che il nucleo che voterà la/il presidente della nuova Commissione europea sia composto da forze politiche che sostengono convintamente il sistema e i valori liberaldemocratici.
La maggior parte delle proposte qui formulate sarebbero benefiche per l’Unione Europea a per i suoi stati membri indipendentemente dalla tempesta arancione. Per questo il costo della loro realizzazione è basso e i loro benefici elevati e dovrebbero dunque essere realizzate a prescindere. Come ha notato Mario Draghi nel discorso tenuto nel luglio scorso al National Bureau of Economic Research, “con la paralisi e l’uscita [dall’Unione Europea] che sembrano poco attraenti, i costi relativi di un’ulteriore integrazione sono ora inferiori. In questo momento storico, non possiamo stare fermi o, come la bicicletta di Jean Monnet, cadremo. Le strategie che in passato avevano assicurato la nostra prosperità e sicurezza – affidarsi agli Stati Uniti per la sicurezza, alla Cina per le esportazioni e alla Russia per l’energia – oggi sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili. Le sfide del cambiamento climatico e della migrazione non fanno che aumentare il senso di urgenza per migliorare la capacità di azione dell’Europa”.
Tutto questo non implica che, nel caso di un’Amministrazione Trump 2.0, ci si diriga verso un distacco tra gli Stati Uniti da una parte e l’Unione Europea e i suoi stati membri dall’altra. Troppo forti e duraturi sono i legami politici, economici, culturali, sociali, militari perché questo avvenga. Gli Stati Uniti sono e continueranno a restare il maggior partner dell’Unione Europea e alla fine si troverà un modus vivendi anche con una nuova Amministrazione Trump. Tuttavia, il tipo di questo nuovo modus vivendi, in cui non mancheranno le tensioni, dipenderà dalla capacità dell’Unione Europea e dei suoi stati membri di far valere le loro ragioni e questo dipenderà a sua volta dalla loro capacità di definire obiettivi condivisi e di dotarsi degli strumenti per realizzarli.
In conclusione, anche per un’entità che si forgia nelle crisi, sarebbe in un certo qual modo paradossale che la minaccia della tempesta arancione sia il fattore che spinge l’Unione Europea verso una più forte integrazione. Ma talora pericoli incipienti spingono le classi dirigenti a fare un salto di qualità che non oserebbero compiere in tempi normali. Se poi la mattina del mercoledì 6 novembre scopriremo che gli sforzi fatti per prevenire e mitigare la nuova tempesta arancione saranno stati inutili perché non si sarà materializzata, tanto meglio, poiché questi sforzi vanno comunque nella buona direzione. Se invece, sempre quella mattina, avremo conferma che la tempesta arancione sferzerà il pianeta per i quattro anni a venire, rimpiangeremo di non aver fatto di più e aver tergiversato troppo a lungo. Ora che è chiaro che Trump sarà il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, l’importante è cominciare a prepararsi e farlo da subito.
la causa negli stati uniti
I tiktoker americani si preparano a cambiare social, ma i brand resistono
Il presidente argentino