Carles Puigdemont - foto Ansa

In Spagna

Perché Puigdemont dice "no" alla legge sull'amnistia e perché Sánchez non è finito

Guido De Franceschi

L'ex presidente della Catalogna, a sorpresa, ha votato contro il decreto che favorisce i secessionisti catalani. Ora, il leader di Junts pretende ancora più tutele e gioca al rialzo, ben conscio che i suoi voti sono necessari per la vita del governo. Ma il premier può giocare le sue carte

Fin dalla sua nascita travagliata, a novembre, si sapeva che per il governo spagnolo guidato dal socialista Pedro Sánchez la principale grana sarebbe stata l’approvazione della legge di amnistia per i secessionisti catalani. La promessa di promulgare questa legge, molto controversa nel dibattito politico spagnolo, era stata la condicio sine qua non posta dagli indipendentisti di Junts, il partito dell’ex presidente catalano Carles Puigdemont, per concedere a Sánchez i propri voti, determinanti per il varo del governo.
 

Lo stesso Puigdemont, che dal 2017 vive (da latitante secondo gli uni e da esule secondo gli altri) all’estero per sfuggire ai mandati di cattura emessi dalla giustizia spagnola in seguito alla sua illegale dichiarazione di indipendenza della Catalogna, sarebbe il principale beneficiario di un provvedimento di amnistia. Ma quando, martedì scorso, dopo un lungo labor limae che aveva messo d’accordo tutte le forze che appoggiano Sánchez, il testo di legge è arrivato in Aula, ecco che è stato bocciato: agli indignati voti contrari dell’opposizione di destra, infatti, si è aggiunto, sorpresa!, il “no” di Junts. Ma come? Chi se n’è stupito non conosce Puigdemont, che non perde mai un’occasione per tirare la corda.
 

Il motivo per il voltafaccia del leader di Junts su un testo a cui aveva già dato il suo ok nasce dal fatto che ora pretende ancora più tutele, dal momento che i giudici – indipendenti sì, ma non sprovvisti di una loro agenda – stanno giocando al rialzo per aggirare i vincoli dell’annunciata amnistia, ricollocando sul tavolo dei processi ai leader catalinisti alcuni capi di imputazione molto gravi che non sono compresi nel provvedimento. Di fatto, i magistrati, forzando ogni possibile interpretazione, indagano sull’ipotesi di procedere per terrorismo in relazione ad alcuni disordini avvenuti nel 2017. In più, c’è anche la vecchia questione di una presunta “manina” russa nelle manovre degli indipendentisti catalani: anche in quel caso si tratterebbe di un reato grave, ma va detto che la condotta del magistrato che si occupa di questa vicenda, che ha scelto di rilasciare alla tv pubblica tedesca un’intervista al riguardo giudicata molto “politica”, ha sollevato numerose critiche.
 

Sánchez, però, non può spingersi molto più in là di quanto non abbia già fatto. La concessione della legge di amnistia è estremamente divisiva (eufemismo) anche a sinistra e i cedimenti davanti agli ukase di Puigdemont sono già arrivati a un limite che pare invalicabile: Sánchez alla vigilia delle elezioni regionali galiziane del 18 febbraio non vuole apparire come un leader sotto costante ricatto, anche perché, corroborato da qualche sondaggio, sogna che il centrodestra, che da quelle parti è abituato a spadroneggiare, possa ottenere un risultato buono, sì, ma non scintillante. Inoltre – è questo è l’aspetto più importante – un allargamento dell’amnistia anche a dei reati che, a torto o a ragione, includano in una qualche forma la parola “terrorismo” o l’espressione “ingerenza russa”, incontrerebbero l’opposizione dell’Unione europea. E Sánchez, il cui governo ha già una posizione un po’ fuori dalle righe bruxellesi sul conflitto mediorientale, per la sua posizione particolarmente critica nei confronti di Israele e per la sua decisione di continuare a finanziare l’Unwra anche dopo che sono emerse collusioni tra il personale di quell’Agenzia dell’Onu e Hamas, non vuole in nessun modo creare ulteriori attriti in Europa sulla questione catalana.
 

Per ritoccare la legge di amnistia c’è ora più o meno un mesetto di tempo. Difficilmente Puigdemont arretrerà più di qualche millimetro e Sánchez non ha intenzione di fare passi avanti. Ma se chi si è stupito del “no” di Junts, che rischia di perdere per sempre tutto quello che ha conquistato dalle elezioni dello scorso luglio a oggi (che è moltissimo), non conosce Puigdemont, chi dà per finito il governo non conosce Sánchez. Che intanto può sfogliare con estrema soddisfazione gli ultimi dati forniti dall’Eurostat e dall’Fmi da cui si evince che l’economia spagnola, con un’ulteriore accelerazione post elettorale nonostante le incertezze politiche, ha chiuso il 2023 con un dato formidabile rispetto agli altri paesi europei (+2,5 per cento del pil, a fronte del +0,5 della media dell’Eurozona e del +0,7 dell’Italia) e può guardare al 2024 con analogo ottimismo

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