In Pakistan
Così Islamabad utilizza le sparizioni forzate dal Balochistan per reprimere il dissenso
I cittadini protestano contro uno stato che li prende a bastonate: nonostante la Convenzione, nel paese non esiste ancora il diritto alla protesta pacifica. Ora ci si appella all'Onu
Da giorni sono accampati a Islamabad come in un campo profughi donne e bambini e uomini che aspettano pazientemente di parlare con “qualcuno”. “Qualcuno” dovrebbe rappresentare lo stato, ma loro a quello stato che li ha accolti a Islamabad a bastonate, lacrimogeni e cannoni d’acqua come se fossero terroristi invece che pacifici cittadini, non credono più. Anche perché quello stesso stato ai terroristi che scendono in piazza per distruggere chiese, bruciare bandiere israeliane o americane e invocare la decapitazione di ambasciatori francesi e danesi e di tutti gli infedeli blasfemi, fa invece ponti d’oro. I Baloch però, nonostante il freddo e la disperazione di tutti coloro che hanno visto sparire i loro cari, non si arrendono. Chiedono che sia l’Onu a prendere finalmente in mano la situazione e a mediare tra il governo pachistano e i parenti delle vittime. Fin quando non arriverà quel momento, non hanno intenzione di andarsene. Rimangono là, donne e bambini innanzitutto, con le fotografie dei loro cari scomparsi, con i cartelli, con la rabbia gridata a piena gola anche quando, come è successo, la polizia tenta di sequestrare l’impianto di amplificazione. Le sparizioni forzate, dicono, devono finire.
Secondo il diritto internazionale, “sono considerate 'sparizioni forzate' l’arresto, la detenzione, il sequestro e qualunque altra forma di privazione della libertà da parte di agenti dello stato o di persone o gruppi di persone che agiscono con l’autorizzazione, il sostegno o l’acquiescenza dello stato, a cui faccia seguito il rifiuto di riconoscere la privazione della libertà o il silenzio riguardo alla sorte della persona sparita o al luogo in cui essa si trovi, tale da sottrarre tale persona alla protezione garantita dal diritto”. Dal marzo 2011, secondo i dati ufficiali, la Commissione d’inchiesta sulle sparizioni forzate del Pakistan ha ricevuto 9.200 denunce, ma gli attivisti stimano che il numero reale sia molto più alto: più del doppio. Dal 2017, circa 20.000 persone sarebbero scomparse dal solo Balochistan.
Di coloro che scompaiono, soltanto pochissimi tornano vivi. Gli altri, la maggior parte, non ritornano mai. O, almeno, non ufficialmente. Perchè la pratica delle sparizioni forzate è connessa, in Pakistan, a un’altra pratica agghiacciante: il cosiddetto “kill and dump”, cadaveri scaricati per strada in vari stadi di decomposizione e con segni di tortura. Amnesty International ha più volte chiesto al Pakistan di “garantire che vengano prese tutte le misure per porre immediatamente fine alla pratica della sparizione forzata”, ma ovviamente nessuno ha intenzione di ascoltare. Perché questa pratica, così ben sperimentata nel Balochistan, è ormai diventata un metodo standard per il governo pachistano di trattare attivisti, giornalisti, liberi pensatori e qualsiasi oppositore politico in tutto il paese. Secondo la Commissione internazionale dei giuristi (Icj), la Commissione d’inchiesta sulle sparizioni forzate, istituita nel 2011 su pressione internazionale, non ha compiuto alcun progresso significativo. L’Icj afferma che la pratica “è diventata una tattica per sopprimere le voci dissenzienti ovunque siano presenti”. Nonostante il Pakistan abbia difatti più volte assicurato la sua intenzione di aderire alla Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate (Ced), l’intenzione è rimasta lettera morta. Islamabad continua a far sparire persone e le repressioni contro le famiglie degli scomparsi che esercitano il loro diritto alla protesta pacifica sono sempre più frequenti e violente. “Il governo del Pakistan ha il dovere di rispettare, proteggere e realizzare il diritto di riunione pacifica, senza alcun tipo di discriminazione, ai sensi della legge internazionale sui diritti umani… Inoltre, l’articolo 16 della Costituzione del Pakistan sancisce la libertà di riunione pacifica come diritto fondamentale”, si legge in un rapporto di Amnesty International. Forse qualcuno dovrebbe regalare alle agenzie di intelligence, alla polizia e ai membri dell’esercito di Islamabad una copia della Costituzione del proprio paese.