Foto Epa, via Ansa

La lunga marcia

Le donne della regione del Balochistan rischiano tutto contro Islamabad

Francesca Marino

Mahrang Baloch è diventata il volto e l’anima della rivolta nella capitale del Pakistan contro le Death squad, le squadre della morte a cui l'esercito ha appaltato prigioni private e celle di tortura

Si sono messi in viaggio lo scorso 23 novembre, marciando dal distretto di Kech, ai confini con l’Iran, fino alla capitale Islamabad. Migliaia di abitanti del Balochistan hanno marciato a piedi per milleseicento chilometri, riempiendo piazze e strade e resistendo ai continui tentativi della polizia di sbarrargli il passo. Fino a che, arrivati a Islamabad, sono stati assaliti dalle forze dell’ordine armate di bastoni, idranti e lacrimogeni. Centinaia i feriti, duecentocinquanta le persone arrestate. Tra loro Mahrang Baloch, una giovane donna che è diventata il volto e l’anima della rivolta. Perché questa volta, a guidare l’ennesima “Lunga marcia” di protesta dei Baloch sono le donne. Madri, figlie, sorelle e mogli delle migliaia di persone che ogni anno scompaiono nella regione a opera dell’esercito pachistano e delle cosiddette Death squad, le squadre della morte a cui l’esercito ha appaltato prigioni private e celle di tortura

Con i bambini al seguito, molte con i piccoli in braccio, si sono messe a camminare come prima di loro avevano fatto le madri della Plaza de Mayo: sperando che il mondo si accorga di ciò che sta succedendo. Perché in Balochistan, regione illegalmente occupata dal Pakistan nel 1948, da molti, troppi anni, è in corso un genocidio culturale e fisico: una vera e propria e propria pulizia etnica che il Pakistan conduce ormai su larga scala da quasi vent’anni tra l’indifferenza e il silenzio del resto del mondo. Ogni anno scompaiono migliaia di persone: prese dall’esercito, dalle forze dell’ordine o dalle Death squad e mai più riviste. A volte riappaiono, uccise e gettate ai bordi delle strade con addosso segni di tortura. O nelle fosse comuni, scoperte per caso e immediatamente occultate dallo stato, o anche, prive di organi, gettate come rifiuti sui tetti degli ospedali

Sono intellettuali, attivisti dei diritti umani, politici dissidenti, studenti, giornalisti, professori. Sono uomini giovani, anziani, donne e anche bambini: colpevoli soltanto di essere figli o fratelli di un dissidente ma, soprattutto, di essere baloch. Nella regione il Pakistan effettua i suoi esperimenti nucleari, nella regione ha tenuto nascosti per anni i talebani ricercati dagli americani, nella regione ci sono più basi militari che ospedali o scuole, nella regione i cinesi hanno costruito prigioni a cielo aperto per i Baloch in nome dello sviluppo e del progresso portato dal China-Pakistan Economic Corridor. 

Perché il Balochistan, la regione più ricca di risorse del Pakistan, è la più povera del paese in termini di reddito pro-capite. Non è la prima volta che i Baloch marciano per protestare, ma è la prima volta che sono le donne a essere il  motore della rivolta. Perché le donne Baloch tradizionalmente vanno a scuola, godono di una parità di fatto con gli uomini. Perché sono stanche di aspettare, stanche di silenzio. Stanche di essere soltanto vittime. Sono centinaia i casi di donne rapite, detenute e torturate, usate come schiave sessuali dai militari e poi gettate via vive o più spesso morte. Quelle che sopravvivono parlano difficilmente: per pudore, per paura che succeda la stessa cosa ad altri componenti della famiglia, perché temono per la propria vita. 

Karima Baloch, che era stata per dieci anni presidente della Baloch Students Association e che era poi costretta a scappare in Canada, è stata brutalmente ammazzata a Toronto. La sua morte, di cui le autorità locali non si sono mai davvero occupate, è stata fatta passare per un suicidio. Speriamo di rivedere viva Mahrang, di rivedere tutti quelli che sono stati arrestati. Chi si avvicina al Balochistan infatti, fisicamente o con la penna e la voce, chi rompe la coltre di silenzio, muore. O fa una brutta fine. Perché il Balochistan è lo scheletro nell’armadio, un armadio già zeppo di scheletri ingombranti, del Pakistan. Un armadio protetto da una coltre di silenzio densa come una cortina d’acciaio. Un silenzio che il mondo dovrebbe ascoltare prima che sia troppo tardi, e che del Balochistan, e di Mahrang e le altre, rimanga soltanto un nome.

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