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Le promesse non mantenute dall'Italia sul clima per i paesi in via di sviluppo

Lorenzo Borga

Alla Cop 28 di Dubai Meloni ha annunciato lo stanziamento di quasi 110 milioni di euro a favore dei paesi in via di sviluppo colpiti dagli effetti del cambiamento climatico. Un impegno significativo che, tuttavia, non cancella i precedenti negativi dell'Italia in questo settore

L’Italia di Giorgia Meloni detiene un inaspettato primato. La premier alla Cop 28 di Dubai ha promesso lo stanziamento di quasi 110 milioni di euro per il fondo cosiddetto “Loss and damage” (perdite e danni) a favore dei paesi in via di sviluppo colpiti dagli effetti del cambiamento climatico. È l’importo più alto per ora annunciato, assieme alla Francia. Il fondo è una sorta di compensazione richiesta da anni dagli Stati del Sud del mondo ai paesi industrializzati, per cui sono arrivati i primi spiccioli (le richieste sono nell’ordine delle centinaia di miliardi).

 

L’annuncio di Meloni non era previsto di tale portata, vista la reticenza dimostrata da governo e maggioranza parlamentare a mettere in cima alle priorità il contrasto al cambiamento climatico. Anzi, fino a qualche mese fa il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin ancora si chiedeva se il riscaldamento globale sia realmente causato dall’uomo o meno.

 

Ma annunciare nuovi stanziamenti non basta. L’Italia infatti non ha una storia di precedenti di successo sui fondi per il clima. I paesi industrializzati promisero nel 2009 di destinare 100 miliardi di dollari all’anno ai paesi in via di sviluppo per promuovere la transizione energetica. L’obiettivo tra sussidi a fondo perduto e prestiti non è ancora stato raggiunto, sebbene ci siamo molto avvicinati (nel 2021, ultimo dato disponibile, i fondi pubblici e privati sono arrivati a 90 miliardi annui). E l’Italia arranca ancor più di altri in questa rincorsa. Nel 2015 l’allora ministro Gian Luca Galletti aveva promesso poco più di 4 miliardi di dollari in sei anni dall’Italia ai paesi in via di sviluppo per favorire impianti di energia rinnovabile, ridurre l’uso dei combustibili fossili e proteggere le popolazioni dagli eventi estremi causati dal cambiamento climatico. Di questi soldi però secondo il think tank Ecco ne sono stati effettivamente versati solo 3,2 miliardi, con un ammanco stimato del 20 per cento. Il Governo Draghi ha rilanciato nel corso del 2021 con un raddoppio dei soldi pubblici, raggiungendo soglia 1,4 miliardi annui. Questi fondi non sono però ancora partiti: gestiti da Cassa Depositi e Prestiti, il comitato di indirizzo si è insediato solo a luglio di quest’anno dopo quasi 24 mesi dall’annuncio di Draghi. Vedremo quindi nel 2026 – termine previsto per i nuovi finanziamenti – quanti saranno effettivamente arrivati ai paesi in via di sviluppo.

 

Questi importi non consentono comunque all’Italia di contribuire quanto dovrebbe al fondo Ocse. Secondo le stime, la quota nazionale dovrebbe raggiungere – tra fondi pubblici bilaterali, multilaterali e privati - circa i 4 miliardi di dollari annui. Con un contributo tanto esiguo dalle casse pubbliche, per ora resta un miraggio.

 

La finanza italiana per il clima impallidisce anche rispetto agli sforzi degli altri grandi paesi europei. I numeri li mette in fila la stessa Cdp: “L’Italia ha sinora contribuito limitatamente all’obiettivo globale” con “risorse effettivamente mobilitate” pari a solo mezzo miliardo di dollari per l’Italia rispetto ai “6-8 miliardi ciascuna per Francia e Germania” all’anno. E la musica non cambierà con l’incremento deciso da Draghi: i fondi italiani, anche nel caso riuscissimo a impiegarli tutti, resteranno meno della metà di quelli stanziati dal Regno Unito e un quinto di quanto fanno francesi e tedeschi.

 

Non chiediamoci poi perché i paesi in via di sviluppo, a partire dall’Africa, siano insensibili alle campane italiane del cosiddetto Piano Mattei, per ora solo una scatola vuota. O perché il soft power italiano non sia bastato a rendere meno umiliante il voto sulla candidatura di Roma a Expo 2030. Follow the money. E non basteranno una manciata di milioni – che Meloni non vuole chiamare “elemosina” – per invertire la rotta.

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