Merkel, Macron e Putin a Parigi nel 2019 per un vertice del cosiddetto “formato Normandia”, il negoziato tra Russia, Ucraina, Francia e Germania (Ansa) 

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Accecati da Vladimir Putin

Paolo Valentino

La Grande Illusione ha fatto credere a Francia e Germania di poter negoziare all’infinito con Mosca. Accadrà di nuovo?

“Ascoltate, voglio dirvi la verità”, disse Vladimir Putin guardando Angela Merkel. “Ma, Vladimir – lo interruppe la cancelliera, fingendosi stupita – io pensavo che tu dicessi sempre la verità”. Il presidente russo accusò il colpo: “Angela, tutti mentono, io mento, tu menti, Emmanuel mente e anche Zelensky mentirà”. Succedeva a Parigi, il 10 dicembre 2019. Emmanuel Macron era riuscito a convincere il capo del Cremlino a venire nella capitale francese per l’ennesimo vertice del cosiddetto “formato Normandia”, il negoziato 2+2 tra Russia, Ucraina, Francia e Germania, che aveva portato alla firma degli accordi di Minsk sul Donbas, mai veramente applicati né dalla Russia, né dall’Ucraina.

  

Voluto dal capo dell’Eliseo, deciso a perseguire la sua ambizione gollista di “impegnare la Russia”, quello parigino fu il primo e ultimo incontro tra Putin e Zelensky. E tutti avevano previsto che il consumato leader russo avrebbe fatto un sol boccone del giovane presidente ucraino, eletto appena otto mesi prima. Ma non andò così. Zelensky rovesciò il tavolo, dicendo a voce alta quello che tutti sapevano e tacevano: gli accordi della Bielorussia erano del tutto sbilanciati a favore di Mosca e così com’erano non avrebbero mai funzionato. “Se andiamo avanti così, saranno necessari decenni e io non ho il lusso del tempo”, aveva detto Zelensky, mandando Putin su tutte le furie. L’ex attore comico aveva colto di sorpresa lo Zar venuto da Mosca, rendendolo nervoso e aggressivo.

A rivelare l’episodio in un libro straordinario è Sylvie Kauffmann, giornalista di Le Monde, per il quale è stata inviata in Russia, Mitteleuropa, Stati Uniti e Asia. Appena uscito in Francia per Stock, “Les Aveuglés. Comment Berlin et Paris ont laissé la voie libre à la Russie”, “Gli accecati. Come Berlino e Parigi hanno lasciato via libera alla Russia”, è il racconto della Grande Illusione che per oltre vent’anni ha spinto i dirigenti occidentali e in particolare quelli tedeschi e francesi, a credere che Vladimir Putin fosse un presidente con il quale si poteva dialogare, far affari e negoziare all’infinito, ignorando i moniti dei paesi dell’Europa centro-orientale, spesso irrisi per la loro russofobia, figlia dei decenni trascorsi sotto il giogo del Cremlino.

Sappiamo com’è finita. La Grande Illusione è stata brutalmente smascherata il 24 febbraio 2022, quando Putin ha dato il via all’invasione dell’Ucraina, innescando una guerra che ha polverizzato l’ordine europeo uscito dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine dell’Urss. Quali segnali abbiamo ignorato? In che modo è stato possibile che un miscuglio di ingenuità, compiacenza, negligenza, ma anche di interesse e complicità, abbia lasciato mano libera al disegno neo-imperiale del capo del Cremlino?

Tutto inizia con uno sguardo. Succede al castello di Brdo, in Slovenia, nel giugno 2001, dove il nuovo presidente americano, George W. Bush, incontra per la prima volta Vladimir Putin, arrivato al Cremlino all’alba del secolo. Un nuovo capitolo si apre nei rapporti tra Washington e Mosca. Quando un giornalista, dopo i colloqui, chiede a Bush se il collega russo gli abbia ispirato fiducia, la risposta lascia tutti di stucco: “Sì. L’ho guardato negli occhi, l’ho trovato diretto e affidabile. Mi sono fatto un’idea della sua anima”. Passeranno meno di tre mesi, e quella che per tutti è l’ennesima gaffe di Bush figlio, sembra invece una giusta intuizione. Putin è il primo capo di stato straniero a telefonargli dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre per esprimergli solidarietà. A prendere la chiamata è Condoleezza Rice, consigliere per la Sicurezza nazionale, che prima di passargli il presidente gli comunica che tutte le forze strategiche americane sono state messe in stato di allerta. “Lo sappiamo – risponde Putin – noi abbiamo annullato tutte le nostre manovre e abbassato il nostro livello di allerta. C’è qualcos’altro che possiamo fare per voi?”.  Rice passa la chiamata a Bush. E’ come incredula: “La Guerra fredda è proprio finita”, dice a chi è nella stanza.

Poco più di due settimane dopo tocca alla Germania essere sedotta da Putin. Il colpo di teatro avviene il 25 settembre, sotto la cupola del Reichstag a Berlino, dove Putin è il primo capo di stato russo a rivolgersi al Bundestag, il Parlamento tedesco. Lo ha invitato Gerhard Schröder, il cancelliere socialdemocratico che vuole rinnovare i fasti della Ostpolitik di Willy Brandt. E’ l’inizio di una grande amicizia. Putin comincia a parlare in russo, ma passa subito a un tedesco quasi perfetto, “la lingua di Goethe, Schiller e Kant”. L’applauso scatta all’unisono. Cosa può importare che l’abbia imparata nel Kgb, di cui è stato capo missione a Dresda? Soprattutto, Putin parla della “vittoria delle idee di libertà e democrazia sull’ideologia totalitaria di tipo stalinista”. E aggiunge: “Una volta per tutte: la Guerra fredda è finita”. Sono tutti in piedi a battere le mani, deputati, diplomatici, grandi imprenditori, mentre l’uomo venuto dal freddo conclude dicendo che il “cuore pulsante della Russia batte sinceramente e onestamente per questa nuova èra di cooperazione in Europa”.

Da allora per i leader occidentali sarà difficile e per alcuni impossibile far prevalere analisi razionali sull’impulso emotivo di dare comunque una chance alla Russia. Eppure, quando Putin, nel febbraio 2007, si presenta alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, poco è rimasto del leader che, come Pietro il Grande, voleva la Russia ancorata all’Europa. C’è stata la guerra in Iraq, il più grave errore strategico degli Stati Uniti dai tempi del Vietnam, che ha diviso l’Europa e avvicinato Putin a Francia e Germania. Poi sono venute le rivoluzioni colorate nello spazio post-sovietico, Georgia, Ucraina, Kirghizistan, dove Putin “vede” e denuncia un piano di destabilizzazione americano. Nel frattempo, a Mosca, i potenziali oppositori vengono incarcerati e la giornalista Anna Politkovskaja, che ha denunciato gli eccessi delle truppe russe in Cecenia, è assassinata. Nella città bavarese, a pochi metri da Angela Merkel e dal capo del Pentagono, Robert Gates, Putin stupisce tutti con un discorso di marca sovietica. Attacca il modello unipolare a guida americana, di cui l’Europa è complice. Critica l’ampliamento della Nato agli ex paesi del Patto di Varsavia, avvenuto nel 2004 a dispetto delle rassicurazioni fornite dopo la sua dissoluzione. “Il tono è aggressivo, l’eloquio irregolare, il viso tirato. Di fronte a lui gli sguardi sono pietrificati”, ricorda Kauffmann.

In realtà non succede nulla. Non al vertice Nato di Bucarest, nella primavera 2008, dove al termine di sedute drammatiche e polemiche Merkel e Nicolas Sarkozy bloccano il Membership Action Plan, il piano degli Usa per far entrare Ucraina e Georgia nell’Alleanza. Putin, presente al summit nel quadro della cooperazione Nato-Russia, ringrazia di cuore la cancelliera e il presidente francese. Col senno di poi, quella forse fu l’ultima volta in cui sarebbe stato possibile scegliere una strada diversa. Posta più volte dopo l’aggressione all’Ucraina, la domanda se un’adesione di Kyiv alla Nato allora avrebbe dissuaso Putin dall’agire, spacca ancora gli europei. È un fatto che tre mesi dopo Putin invade la Georgia, complici le maldestre provocazioni del suo presidente Saakashvili. Ci sono solo proteste verbali, mentre Sarkozy si fa mediatore per un cessate il fuoco che non impone il ritiro delle truppe russe. Evocando una riunione d’emergenza in quelle ore al Pentagono, Condoleezza Rice ricorda che “il testosterone volava sul tavolo”, ma anche che fu chiaro fin dall’inizio che “non avremmo usato la forza militare americana contro i russi”.

Non sarà molto diverso nel marzo 2014 in Ucraina, quando dopo la crisi di Maidan e la cacciata del suo fidato Viktor Yanukovich dal palazzo presidenziale, Putin rompe gli indugi e invade la Crimea. Kauffmann rivela che in quelle ore l’Amministrazione Obama preme fortemente sulle autorità di Kyiv perché non tentino la minima reazione militare.

Vengono poi le prime sanzioni e l’estenuante trattativa di Minsk. Ma nessuno, a Berlino, a Parigi (e neppure a Roma) pensa mai neppure per un momento di rompere il filo del dialogo e soprattutto quello degli affari con Putin il quale, dopo una breve parentesi da premier, si è fatto rieleggere e avanza in una deriva sempre più autoritaria, perseguitando gli oppositori come Navalny, mentre i suoi servizi segreti usano il polonio per colpire all’estero chi ha disertato. La parola d’ordine, riassunta da Emmanuel Macron, rimarrà sempre la stessa: “Non bisogna umiliare la Russia”. Ognuno ha il suo interesse a farlo. Gli americani sono distratti dal “pivot” in Asia, dove giocano con la Cina la partita per i futuri assetti del mondo. Mentre i presidenti francesi coltivano ancora la fantasia della Superpotenza e si illudono di imbrigliare Putin in un’architettura di sicurezza europea autonoma dagli Usa. 

La Germania è un caso più complesso: senso di colpa, affarismo e paura motivano il rapporto con Mosca. Tutta la classe politica tedesca sente il debito storico con la Russia, dove le armate hitleriane hanno causato 27 milioni di morti. Pochi mesi prima dell’invasione dell’Ucraina, il presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier sostiene che il Nord Stream 2, il secondo gasdotto sotto il Baltico completato e mai entrato in funzione, era dovuto anche per via degli orrori del nazismo. La realtà è più prosaica: il modello economico tedesco, export led e divoratore di energia, ha nel gas russo a basso prezzo uno dei suoi pilastri. Infine, ogni tensione con Mosca alimenta nei tedeschi una irrazionale paura atomica. Poi ci sono due personaggi chiave: uno è Gerhard Schroeder, che appena finisce di fare il cancelliere socialdemocratico entra nel Consiglio di amministrazione di Gazprom, cioè a libro paga di Putin e da allora ne diventa il primo lobbista in Germania ed Europa. L’altra è Angela Merkel, che non ama Putin ma pensa di capirne la psicologia, parla la sua lingua e, almeno all’inizio, lo considera un partner razionale. Merkel sarà sempre disposta a dialogare, anche davanti alla sua palese inaffidabilità. Soprattutto, l’eterna cancelliera vuole tenere i tedeschi buoni, al caldo e benestanti, il segreto dei suoi 16 anni al potere; dunque, gli affari con Putin devono proseguire in ogni caso, l’economia è separata dalla politica.
Eppure, le messe in guardia sui rischi politici e strategici non mancano. Vengono dal centro e da est. Sono quelle della Polonia, dei baltici, paesi che i leader dell’Europa carolingia trattano come parenti poveri, ossessionati dal loro passato sotto il tallone sovietico. E vengono ignorate, anche se rinnovate di continuo. Kauffmann racconta un aneddoto strepitoso, quello del 18 giugno 2021 a Bruxelles, quando al Consiglio europeo, l’ultimo prima delle elezioni tedesche dove non sarà più candidata, Angela Merkel propone insieme a Macron di invitare Putin a un vertice Ue-Russia. Joe Biden lo ha appena incontrato a Ginevra. E’ la premier estone, Kaja Kallas, a rompere l’imbarazzato silenzio, attaccando la cancelliera: “Un vertice? Per fare cosa? Abbiamo sempre detto che non ci sarà summit europeo con Putin se non restituisce la Crimea. Così significherebbe che la nostra parola non vale niente”. Merkel si innervosisce, diventa rossa in viso. E’ Mario Draghi a calmarla e a dirle: “Kaja ha ragione”. La proposta è abbandonata. Uscendo dalla riunione, il premier italiano dice a Callas: “Saresti stata un grande avvocato”.

È tardi, molto tardi, quando gli accecati aprono gli occhi, dopo il 24 febbraio 2022. Nessuno fino al giorno prima ci ha voluto credere. “Il risveglio è stato brutale – scrive Kauffmann –. Tre giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato solennemente una Zeitwende, una svolta epocale che avrebbe imposto molti cambiamenti. I tedeschi hanno allora scoperto che la tripla dipendenza del loro paese – dalla Russia per il gas, dalla Cina per le esportazioni e dagli Usa per la difesa – che aveva permesso loro di vivere in modo così confortevole, li aveva resi anche molto vulnerabili”. Tutti o quasi riconoscono errori e abbagli.

Eppure, al termine del suo viaggio, Kauffmann nota qualcosa d’inquietante. Angela Merkel non ha cambiato idea e, riflettendo sul proprio bilancio, dice che la decisione di Bucarest fu giusta e che i negoziati di Minsk “hanno consentito all’Ucraina di guadagnare tempo, preparandosi a resistere all’aggressione”. Si paragona addirittura a Chamberlain, rivalutandolo e rovesciando il senso della sindrome di Monaco, dove nel 1938 il premier inglese, sia pur con le migliori intenzioni, accettò il ratto nazista della Cecoslovacchia e aprì la strada a Hitler. Neppure Macron, che pure ammette di essersi illuso sperando di convincere Putin, non sa congedarsi dall’idea di “engager la Russie”. Così, nota l’autrice francese, “tra coloro i quali pensano ancora che la sicurezza dell’Europa dev’essere ricostruita con la Russia e quelli che invece la concepiscono solo contro la Russia il solco rimane profondo”. Gli ex accecati saranno di nuovo pronti a chiudere gli occhi?

 

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