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Popoli a confronto

La Palestina di Giulio Cesare. La lezione dimenticata del “Divide et impera”

Siegmund Ginzberg

Il medio oriente di oggi si presenta come le Gallie di allora: un puzzle di fazioni in lotta, un miliardo e mezzo di pezzi da ricomporre nella loro grande diversità e frantumazione

Scrive Giulio Cesare che “in Gallia vi sono dei partiti [factiones] non soltanto in tutte le città e in tutti i cantoni e distretti, ma quasi addirittura in ciascuna famiglia” (Bellum gallicum, Libro 6, par. 11). Esattamente così nel grande medio oriente che ora ruota pericolosamente attorno al sottilissimo perno di Gaza. È quello che rende complicatissimo, apparentemente insolubile il problema. La Gallia, anzi, nella loro grande diversità e frantumazione, le Gallie di Cesare erano un puzzle di migliaia di pezzi. Il mondo islamico tutto attorno è un puzzle da milioni, anzi da un miliardo e mezzo di pezzi.  Si dice palestinesi. In realtà si tratta di un caleidoscopio infinito di partiti, movimenti, famiglie, fedeltà personali a questo o quel capo, di clientele facenti capo a questo o quel paese della regione. Anche Hamas o la Jihad islamica, o Ezbollah, persino l’Autorità palestinese in Cisgiordania, fanno capo a questo o quel clan o referente. Eliminato uno, ne rispunta subito un altro, o molti altri. Villaggio per villaggio della Cisgiordania, città per città, quartiere per quartiere a Gaza. Senza contare le lotte a coltello per il potere e la leadership all’interno di ciascun clan, ciascun movimento, ciascuna famiglia, ciascuna cordata e sistema di clientele, oltre che tra gli stati e all’interno di ciascuno stato.  Ci sono intere biblioteche di studi sull’argomento. I migliori quelli israeliani.


Di tribù, Cesare ne elenca un centinaio. C’è chi stima ce ne fossero nelle Gallie almeno 500. Il Libro VI è una lunga digressione “antropologica”. Gli studiosi ritengono che non sia frutto di un’indagine originale. Alcuni stereotipi sono tratti di peso da fonti letterarie precedenti. In Posidonio, Plinio e Strabone si moltiplicano ulteriormente. Le famiglie più potenti sono persino in grado di reclutare mercenari, usurpare regni (Bellum gallicum Libro II, 1). Su internet sono incappato in un affascinante studio inedito del 2020 di J.T. Godfrey, dell’Oberlin College, in Ohio, che tratta per filo e per segno i riferimenti di Cesare al sistema delle clientelae in Gallia nel condurre le operazioni militari (Friends, Barbarians, Future Countrymen: Clientela and Caesar’s De Bello Gallico). Estende il classico Foreign Clientelae, 264-70 B.C. di Ernst Badian. Dal punto di vista militare a Gaza non è per niente finita. Ma si può immaginare come andrà a finire. E comunque deve finire per forza, prima o poi. Nessuna guerra può andare avanti per sempre. Vale anche per l’Ucraina. Sul dopo invece si è in alto mare. Non si capisce bene dove voglia arrivare Netanyahu. Biden gli aveva detto chiaro tondo di non cominciare neanche se non aveva un’idea per il dopo. Non gli hanno dato ascolto. Gli aveva detto di non andarci pesante con i civili. Gli hanno dato ascolto, ma troppo poco. Hanno rotto con l’Onu. Hanno rotto con metà dell’opinione pubblica mondiale. Le immagini di bambini massacrati e ospedali devastati si sono sovraimpresse alle immagini del massacro di Hamas. Sono più volte arrivati lì lì per coalizzare contro Israele tutto quanto il mondo islamico – compresi gli arcinemici Iran sciita e Arabia saudita sunnita. Un disastro di immagine.


C’è stata una frenesia di iniziative diplomatiche, di pacieri più o meno credibili, più o meno improvvisati, sin dal primo momento. A guardare meglio, qualcosa hanno ottenuto. Si è evitato l’allargamento del conflitto ad altri stati arabi, e in modo particolare all’Iran, e ai suoi principali clienti nella regione: Hezbollah in Libano, che è la longa manus dei Guardiani della rivoluzione a Teheran, e la Siria di Assad. Lo sceicco Nasrallah continua a minacciare e sbraitare. Ma Teheran lo tiene a freno. Iraniani e americani si sono incontrati in gran segreto in Svizzera. Gli iraniani gli hanno detto chiaro e tondo che non vogliono una guerra regionale allargata, men che meno una guerra con l’America. Non c’è bisogno che lo giurino sulla testa dei propri figli. È evidente che gli costerebbe carissimo, non solo in perdite militari: agli ayatollah rischierebbe di costare la presa sul potere cui sono abbarbicati. Nessuno in Iran è pronto a tollerare un’altra guerra sanguinosa come quella durata otto anni contro l’Iraq di Saddam. Quasi nessuno è disposto a morire per i palestinesi, tanto meno per Hamas, che li ha messi nei pasticci senza nemmeno avvertirli di cosa volesse fare. Non gli iraniani. Non il Qatar, il maggior finanziatore di Hamas, che non ha nessuna intenzione di far svanire le rendite di posizione acquisite a suon di petrodollari, l’immagine tanto pagata in tutto il mondo (ricordate il Qatargate?). Non l’Arabia saudita che continua a vendere il proprio “Rinascimento”. Nemmeno gli altri palestinesi, malgrado l’aggressività dei coloni e la destra israeliana facciano di tutto per coinvolgerli. Se il movente di Hamas era tirarli tutti dentro, su questo hanno fallito clamorosamente.


Circolano molte ipotesi, e anche proposte, sul “dopo”. Biden, e l’Europa a rimorchio, dicono di nuovo: “Due popoli, due stati”. Ma resta avvolto nella nebbia se sia ancora possibile e come. Un politico e diplomatico di lungo corso come l’ex premier svedese, e mediatore per la Bosnia, Carl Bildt, è intervenuto con un editoriale che si intitola “C’è solo una via per uscirne”. Ma inizia ricordando che “la storia della regione è lastricata di piani di pace falliti, conferenze diplomatiche collassate, mediatori delusi”. L’ultimo tentativo in cui molti avevano creduto, il dopo Oslo di oltre trent’anni fa, è archeologico. Ero corrispondente in America quando nel 1993 Clinton fece stringere la mano a Rabin e Arafat. L’offerta in cambio della pace erano due terzi della Cisgiordania e Gerusalemme est. Un amico bene informato, il rabbino Arthur Hertzberg, aveva gelato i miei entusiasmi, facendomi notare che con l’insistenza da parte di Arafat sul “diritto al ritorno” (dei palestinesi cacciati nel 1948 e nelle guerre successive) non si andava da nessuna parte. Aveva ragione lui. Arafat si era lasciato andare a spiegare dietro le quinte che altrimenti i suoi l’avrebbero ammazzato. Rabin fu ammazzato lo stesso, due anni dopo, nel 1995. Oggi le cose sono esponenzialmente più complicate. Raramente il nation building a tavolino ha funzionato (tra le eccezioni il Giappone, e la Germania). Tra i macigni, oltre allo stratificarsi dell’odio, il destino dei due milioni di palestinesi di Gaza (nessuno stato arabo li vuole), oltre al fatto che i coloni israeliani insediatisi illegalmente in Cisgiordania sono ormai più di 700.000. Sono la base elettorale del governo Netanyahu. Se nessuno vuole morire per Hamas, e anche quelli che gli “baciano le mani” potrebbero essere pronti a sacrificare Yahya Sinwar e accoliti, cosa potrebbero accettare in cambio? 


L’unica cosa certa è che in qualche modo già si tratta. Si negozia sugli ostaggi, si negozia sul cessate il fuoco, e probabilmente si negozia già anche sul dopo. I pourparler sono segreti. In pubblico ciascuno sta sulle sue, si è alla propaganda. Forse si aspetta l’esito delle presidenziali americane dell’anno venturo. Trump se ne tirerebbe fuori, come ha fatto in Siria. Penserebbe solo al prezzo del petrolio e agli affari con l’Arabia saudita. Ma significherebbe lasciar nella peste anche Israele. E comunque non è detto che ci sia tanto tempo. Il ministro degli Esteri, ed ex ministro dell’Intelligence israeliano Eli Cohen dice che la “finestra diplomatica” internazionale per la campagna di Tsahal a Gaza non va al di là di “due o tre settimane”, da adesso.


Ma torniamo a rileggere Giulio Cesare. All’inizio del De Bello gallico c’è un incontro tra Cesare e ambasciatori degli elvezi, che, spinti dalla fame, avevano attraversato il Rodano, spingendosi nel territorio degli edui, amici e alleati dei romani. Le 5 legioni che Cesare aveva reclutato in fretta e furia in Gallia padana (quelli avevano già ottenuto la cittadinanza romana) avevano già sterminato un’intera loro tribù, i tigurini, i quali per primi avevano attraversato il fiume. Erano discendenti di coloro che avevano in alleanza con i cimbri e i teutoni mosso guerra a Roma mezzo secolo prima. A Roma c’era chi voleva metterlo sotto processo per un massacro ingiustificato. Catone il Giovane aveva addirittura proposto che lo consegnassero ai nemici. Fu istituita una commissione d’inchiesta. Lui si era dovuto giustificare. Tra le ragioni addotte, oltre al fatto che avevano molestato [vexassent] edui, ambarri, allobrogi e sequani, c’era la vendetta (sia pure servita fredda). Una vendetta anche personale: 50 anni prima avevano ucciso un suo avo. Cesare scrive che nel loro accampamento si erano trovate tavolette con incisi i nomi di tutti gli aspiranti migranti: 368.000, di cui 92.000 in grado di portare armi, gli altri donne e bambini. Non furono risparmiati. Gli ambasciatori degli elvezi superstiti gli proposero di lasciarli passare, che non avrebbero dato fastidio agli edui, intendevano stabilirsi molto più a nord, verso la Bretagna. Gli dissero che erano disposti ad andare dove Cesare avesse voluto. Chiese riparazioni agli edui e agli allobrogi, e che gli consegnassero ostaggi, “a garanzia che avrebbero mantenuto le promesse”. Il capo dell’ambasciata elvetica, Divicone, gli rispose che “gli elvezi erano stati educati dai loro avi a ricevere ostaggi, non a darli”. E, “data questa risposta, se ne andò”. (Bellum gallicum, I, 14). Andò a finire male per gli elvezi.

Sempre nel Libro I, dopo questo tentativo diplomatico finito male, c’è un incontro di Cesare con “i notabili delle popolazioni di quasi tutta la Gallia”, e poi una specie di conferenza di pace. Ma conclusosi l’incontro pubblico, “i medesimi notabili delle nazioni” tornano da Cesare e gli chiedono di “trattare con lui in segreto [in occulto]”. Che “se fossero stati riferiti i loro discorsi, sapevano che sarebbero finiti nei supplizi più gravi [summum in cruciatum se venturos viderent]”. Gli raccontano che “tutta la Gallia era divisa in due partiti [factiones], l’uno controllato dagli edui, l’altro dagli averni”. Peggio: gli averni e i sequani avevano chiamato ad aiutarli, come mercenari, dei germani, i quali non se ne volevano più andare. Per questo gli edui avevano chiesto l’aiuto dei romani. Anzi “ai sequani vincitori [degli edui] era andata peggio che agli edui vinti [dai sequani]. “Ariovisto, re dei germani, si era stabilito nel loro paese, aveva occupato un terzo delle loro terre, e ora gli ordinava di lasciargliene un altro terzo”. Cesare si accorge che i sequani non dicono nulla e “con volto triste e con la testa bassa guardano a terra”. Gli chiede perché. Al che gli viene  spiegato che “la sorte dei sequani era più misera e grave degli altri per questo, che essi nemmeno in segreto osavano lamentarsi e implorare aiuto e tremavano per la crudeltà di Ariovisto assente, come se egli fosse presente; poiché, mentre gli altri avevano la possibilità di fuggire, i sequani invece, che avevano accolto Ariovisto nel loro paese e gli avevano dato in mano tutte le loro città, dovevano sopportare ogni tormento [omnes cruciatus]” (I, 31). Anche allora interi popoli erano ostaggio dei più prepotenti.


Quello degli elvezi disperati non fu l’unico massacro. Non basterebbe questa pagina per elencarli tutti. Nel Libro IV Cesare narra di come sterminò i tencteri e gli usipeti, due tribù germaniche che, a causa della pressione degli svevi (suebi), nel 55 a. C. si erano insediati sulla riva destra del corso finale del Reno. “Molti vennero uccisi, gli altri si gettarono nel fiume e, vinti dalla paura, dalla stanchezza e dalla forte corrente, morirono”. Erano anche questi migranti indesiderati. Archeologi olandesi dell’Università Vrije di Amsterdam ne hanno recentemente ritrovato gli scheletri, insieme a migliaia di punte di lance, spade e caschi in bronzo. Nel Libro II vengono quasi sterminati i nervi, al punto da cancellare il nome stesso della loro nazione (internecionem gente ac nominis Nerviorum. Anche anziani, donne e bambini. Maiores cum pueris mulieribusque (II, 28). “Le madri di famiglia [dei belgi] buttavano giù dal muro gli abiti e l’argenteria, e sporgendosi con il petto nudo e con le mani levate scongiuravano i romani di risparmiarle e di non uccidere le donne e bambini, come avevano fatto ad Avarico [l’odierna Bruges]” (VII, 47).

Su tutte quelle vicende abbiamo solo il racconto di Cesare. Elegantissimo, ma di parte. Pro domo et carriera sua, personale. In quel momento mirava al prolungamento dell’incarico di proconsole delle Gallie, osteggiato dai suoi nemici politici a Roma. Come a Netanyahu, gli pendevano processi tra capo e collo. Dopo la conquista della Gallia le stragi non finirono. E nemmeno le rivolte. Già nel penultimo Libro del Bellum gallicum, l’VIII, Vercingetorige compatta nuovamente tutti i galli, stufi di tributi e soprusi, contro Roma, compresi quelli che Cesare considerava “amici”, anzi “fratelli e consanguinei [fratres consanguineosque]” del popolo romano. E le rivolte sovvengono puntuali anche dopo. La Gallia imperiale era infestata da bagaudae, banditi, etimologicamente “combattenti”, oggi si direbbe jihadisti. L’impero romano alla fine fu travolto proprio dai barbari che pensavano di aver domato una volta per tutte.  “La gloria più grande per una nazione consiste nel fare il deserto intorno a sé devastando il territorio circostante. Considerano segno peculiare del valore che i confinanti, cacciati dai loro campi, si ritirino, e che nessuno osi fermarsi vicino a loro; nel contempo pensano che tale situazione li renda più sicuri, eliminando il timore di una incursione improvvisa” (Bellum gallicum VI, 23). Ma attenti: è riferito alle usanze barbare dei galli, non alla conclamata “clemenza” e “civiltà” dei romani. Cesare, che pure sapeva essere spietato, avrebbe probabilmente disapprovato la “Dottrina Dahiya” (dal nome del sobborgo di Beirut che fu distrutto, civili compresi, durante l’invasione del Libano del 2006). Non perché crudele. Perché controproducente.


Ci sono alcuni elementi chiave, ricorrenti. La convinzione che per fare la guerra, così come per fare la pace, bisogna studiare, sapere con chi si ha a che fare. Il Divide et impera. Soprattutto evitare che tutti quanti si coalizzino contro di te. Quel che ti dicono gli interlocutori non sempre è quello che pensano davvero. Come è manipolatorio quel che dice Cesare. Ma spesso le lezioni si disapprendono.

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