le voci degli esperti

Chi sostiene Hamas?  Un girotondo di opinioni di esperti per capirlo


Dal 7 ottobre il gruppo terroristico palestinese incita le piazze della regione e i paesi alleati alla guerra contro Israele. Un po’ ci è riuscito e un po’ no

Dal 7 ottobre, dopo aver massacrato millequattrocento persone nel sud di Israele e aver preso più di duecento ostaggi, Hamas punta al contagio, fa leva sull’ opinione pubblica e sulla diffusione dell’odio antisemita. Ci sono state risposte di piazza e risposte istituzionali, e nel mondo arabo, dove il gruppo terrorista punta ad avere più sostegno, la guerra è percepita più come una minaccia che come una causa a cui unirsi.


Nelle differenze. Se già prima degli attacchi del 7 ottobre era difficile distinguere nel mondo arabo chi sostenesse Hamas e chi invece semplicemente la causa palestinese, oggi è diventato praticamente impossibile. Così come è impossibile sapere se la popolazione di Gaza oggi voterebbe nuovamente per Hamas oppure no. Un sondaggio condotto dall’Arab Barometer (un centro di ricerca quantitativa riconosciuto da molti esperti),  sottoposto a 399 abitanti di Gaza poco prima che esplodesse la guerra, mostrava che la maggior parte degli intervistati non avevano pressoché alcuna fiducia in Hamas. E’ anche vero però che a livello regionale due paesi principali sostengono militarmente e politicamente Hamas (Iran  e Qatar) e che un riflesso sulla popolazione è verosimile. Vi sono anche molti paesi arabi dove i Fratelli musulmani, storico partito islamista da cui ha avuto origine Hamas, sono sia amati sia terribilmente temuti (Egitto, Tunisia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti per citarne alcuni). Da un lato, il terrore che i Fratelli possano far cadere le monarchie e le dittature nel mondo arabo ha fatto sì che vi siano in atto numerose rappresaglie interne contro chiunque sostenga la Fratellanza, anche se moderati. Questo fa sì che il sostegno per la Fratellanza, e in molti casi per gruppi affiliati come Hamas, si dirami tra i quartieri popolari, dove le autorità hanno minor potere. Allo stesso tempo, chi da sempre sostiene la Fratellanza musulmana nei paesi arabi (si stima oggi sia tra il 20 e oltre il 50 per cento delle popolazioni dei paesi arabi) vedrà nelle politiche israeliane un tentativo occidentale di reprimere un’ideologia e un modus vivendi piuttosto che la necessità di combattere il terrorismo, e di conseguenza è probabile che continui a sostenere la Fratellanza e, forse, anche i gruppi connessi. 

Alissa Pavia, direttore associato del Rafik Hariri Center e dei programmi del medio oriente dell’Atlantic Council

 


 

In Tunisia. La stragrande maggioranza dei tunisini sostiene fermamente la causa palestinese. La Tunisia ha ospitato l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) negli anni Ottanta, dopo che   era stata cacciata dal Libano da Israele nel 1982. Nel 1985, Israele ha bombardato l’Olp in Tunisia nell’operazione Gamba di legno, ricordata in Tunisia come una grave violazione della sovranità. Molti tunisini ritengono che gli israeliani siano colonizzatori e che, a causa della violenza dell’occupazione e dei crimini di apartheid commessi da Israele, i palestinesi abbiano il diritto di resistere con qualsiasi mezzo. Molti hanno ascoltato voci sbagliate secondo cui Hamas avrebbe preso di mira solo i soldati israeliani e considerano i rapporti israeliani e occidentali, secondo cui Hamas ha  torturato e ucciso brutalmente bambini, anziani e altri evidenti innocenti, come propaganda delle Forze di difesa israeliane (Idf). Molti arabi, compresi i tunisini, si trovano – così come molti israeliani – in una eco mediatica che mostra scene cruente di violenza commesse da una sola parte. La testata Al Jazeera, che ha  realizzato molti dei reportage più coraggiosi a Gaza, non ha coperto la portata dei crimini di Hamas del 7 ottobre. Molti tunisini semplicemente non si rendono conto della portata della violenza di Hamas. La Tunisia ha una minuscola comunità ebraica (circa 1.500 persone al massimo).  Una comunità che si sente sempre più minacciata da quando il presidente tunisino Kais Saied ha preso il potere  con un colpo di stato due  anni fa.   Saied ha l’abitudine di vedere complotti sionisti in luoghi assurdamente improbabili, e il suo governo non ha denunciato come antisemitismo l’attacco terroristico di maggio al festival ebraico più famoso della Tunisia, tenutosi in una sinagoga, e non ha visitato la comunità per porgere le condoglianze dopo l’attacco. Le brutali rappresaglie di Israele contro Hamas, ma anche contro i palestinesi di Gaza, hanno creato le premesse per ulteriori minacce alla comunità ebraica tunisina. Un disegno di legge che criminalizza la normalizzazione delle relazioni con Israele sta  avanzando rapidamente nel Parlamento di Saied. Questa legge criminalizzerebbe l’esistenza di quasi tutti gli ebrei in Tunisia, perché punisce i tunisini che hanno rapporti con gli israeliani. Nelle ultime settimane i tunisini, a dimostrazione del loro forte sostegno alla Palestina, hanno inscenato le più grandi proteste che il paese abbia mai visto dalla rivoluzione del gennaio 2011, che rovesciò il dittatore di lunga data Zine el Abidine Ben Ali e  diede il via alla Primavera araba.


Monica Marks, professore di Politiche mediorientali alla New York University di Abu Dhabi

 



In Egitto. Delineare il sostegno ad Hamas a livello popolare non è semplice, perché non esistono dati accurati o sondaggi per approfondire in modo scientifico questo aspetto, e  rivolgere alle persone queste domande sarebbe probabilmente vietato. Parlando dell’Egitto, per esempio, non esistono dati sull’opinione pubblica e se una domanda del genere, sul sostegno o meno ad Hamas, fosse rivolta oggi, senza dubbio i sondaggi darebbero dei risultati fortemente distorti, perché sarebbe interpretata come una questione di sostegno o meno alla causa palestinese, soprattutto nel contesto attuale. La mia opinione è che la causa palestinese sia profondamente importante per gli egiziani e  in generale nel mondo arabo. L’Egitto ha avuto storicamente una base di consenso significativa nei confronti dei Fratelli musulmani ma non è possibile tradurla automaticamente in un sostegno ad Hamas. Al momento, le critiche ad Hamas nel discorso politico in Egitto finiscono in secondo piano rispetto al sostegno alla causa palestinese e  contro i bombardamenti di Gaza che hanno causato così tante vittime civili. Non credo che Hamas abbia molta popolarità in Egitto. Ma allo stesso tempo, in quanto gruppo che si oppone all’occupazione e all’assedio di Gaza  da parte  di Israele, penso ci sia una grande solidarietà in Egitto con questa particolare forma di opposizione. Gli egiziani sono  favorevoli al sostegno e agli aiuti ai palestinesi di Gaza e non vorrebbero mai rendersi complici di quella che definiscono una “pulizia etnica”.
H. A. Hellyer, ricercatore  al Royal United Services Institute e al Carnegie Endowment for International Peace

 


 

In Libia. Quando si affronta l’intricata politica estera del medio oriente, bisogna procedere con cautela, assicurandosi di non ritrarre un’intera popolazione con un pennello troppo largo. I vari punti di vista dei popoli in qualsiasi nazione, compresa la Libia, sono talvolta sfaccettati e diversi. E’ quindi avventato pensare che una singola prospettiva possa racchiudere i sentimenti di tutti i libici. In qualità di osservatore esterno della Libia, offro i seguenti spunti di riflessione, pur riconoscendo la potenziale inadeguatezza a rappresentare il sentimento di un’intera nazione. Le piazze arabe, diverse dalle élite arabe, hanno spesso un punto di vista diverso da quello che viene rappresentato ai tavoli diplomatici occidentali. Mentre gli accordi di Abramo potrebbero segnalare un cambiamento strategico tra le élite di alcune nazioni arabe, il popolo rimane consapevole degli eventi storici e in corso in Palestina. Il  cittadino arabo comune comprende che eventi come quelli del 7 ottobre non si verificano in modo isolato. Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha giustamente sottolineato come questi eventi non siano accaduti dal nulla. E la stragrande maggioranza dei cittadini arabi comuni concorda con Guterres.  Nonostante l’apparente amnesia delle élite arabe nei confronti di Israele, la popolazione araba comune rimane informata. Ricorda l’occupazione illegale all’interno della Linea Verde del giugno 1967 e rimane consapevole delle attività dei coloni e della violenza in Cisgiordania. Il ritiro dei coloni da Gaza nel 2005 non ha significato la fine dell’occupazione, ma ne ha rappresentato la continuazione e, probabilmente, l’intensificazione. Quasi tutti i cittadini arabi ne sono consapevoli.  Le proteste di fine agosto e inizio settembre in Libia testimoniano l’attenzione della nazione. Anche se alcuni elementi di queste proteste potrebbero essere stati orchestrati, la loro esistenza è innegabile. E’ interessante notare che nazioni come il Marocco e il Sudan, entrambi firmatari degli accordi di Abramo, non abbiano visto simili proteste  contro Israele. Le manifestazioni libiche, che si sono svolte principalmente nelle città occidentali, hanno trasmesso un sentimento che risuona nelle piazze arabe. Mentre le proteste sono state più evidenti in città come Misurata, Tripoli, Zawiya e Zintan, non si dovrebbe concludere frettolosamente che le città orientali come Bengasi o Tobruk abbiano espresso opinioni diverse. Le diverse circostanze, in particolare il contesto di sicurezza prevalente, possono condizionare la manifestazione del sentimento pubblico. Gli eventi del 7 ottobre e i successivi attacchi di Hamas non hanno colto i libici di sorpresa. L’intensità di questi eventi è stata ovviamente spettacolare, ma i libici sapevano che la strategia di Israele nei confronti di Gaza non era sostenibile e che le cose sarebbero finite male. Detto questo, è assolutamente necessario distinguere tra la comprensione delle cause più profonde e l’approvazione di qualsiasi forma di violenza. Le conversazioni con libici di varie regioni non indicano un’approvazione o una simpatia diffusa nei confronti di Hamas o delle sue tattiche.
Jalel Harchaoui, Royal United Services Institute (Rusi)

 



In Siria. La mia opinione è che il sostegno ad Hamas – inteso come “resistenza” o “Jihad”, in una interpretazione più islamica – contro l’occupazione e l’oppressione di Israele sia qualcosa che generalmente riduce le distanze politiche tra sostenitori e oppositori del regime siriano. Questo vale anche se molti tra i contestatori del governo di Damasco nutrono delle riserve  a causa dei legami   tra Hamas e l’Iran, e anche se in passato molti sostenitori del governo  hanno avanzato preoccupazioni dalla rottura delle relazioni fra Hamas e il governo siriano durante la guerra (in questi anni molti membri di Hamas in Siria si sono uniti ai ribelli anti regime a Damasco). Certo è che la percezione della risposta di Israele agli attacchi ha solo intensificato questo sentimento. Sembra inoltre che i curdi siano  meno emotivamente coinvolti, e infatti finora sono stati più preoccupati dai recenti bombardamenti turchi nelle aree sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma. Poi c’è la comunità drusa – presente anche in Israele – in particolare nella provincia di al Suwayda, dove esistono limitatissime eccezioni che contestano Hamas e che  lo vedono come uno strumento nelle mani dell’Iran. Si tratta però di opinioni molto minoritarie.
Aymenn Jawad al Tamimi,  ricercatore e fellow del Middle East Forum

 



In Giordania. Il caso della Giordania è particolare quando si parla di Hamas. Il movimento ha avuto da sempre una sede in Giordania e i suoi rappresentanti vivevano nel paese, dove Hamas ha avuto una presenza significativa in passato. Nel 1999, la Giordania ha preso la decisione di espellere Hamas e i suoi leader sono andati in Siria e Qatar. Da quel momento i rapporti ufficiali con il governo giordano si sono interrotti. Tuttavia, sul piano ideologico, il movimento è molto legato ai Fratelli musulmani, il che gli permette di godere di una vasta presenza a livello popolare. Inoltre, il movimento è ancora visto positivamente da alcuni settori della società giordana, specialmente nelle comunità palestinesi dove per anni  Hamas è stato presente nei campi profughi. E’ interessante notare  anche come Hamas abbia guadagnato popolarità negli ultimi anni e alcune persone si rifiutino di considerarlo come un gruppo terroristico.
Amer al Sabaileh, professore ed esperto geopolitico

 


 

In Arabia Saudita e Qatar. Le relazioni fra Hamas e l’Arabia Saudita sono complicate da sempre e questo ha conseguenze anche su come la popolazione saudita vede il movimento terroristico di Hamas. Tra le principali problematiche ci sono ovviamente le relazioni che Hamas ha con i Fratelli musulmani e l’Iran. Ma allo stesso tempo, come dimostra la reazione di Riad dopo gli attacchi del 7 ottobre, l’Arabia Saudita ha sempre avuto un approccio molto pragmatico. Dopo l’operazione al Aqsa Flood, il governo saudita si è guardato bene dal condannare le violenze di Hamas. Ciononostante non si può definire questo un vero cambiamento della politica saudita nei confronti del gruppo, piuttosto si è trattato di un modo per non andare contro l’opinione pubblica. I sauditi infatti non vogliono essere visti come complici di Israele a spese dei palestinesi. Per loro, la vicinanza alla lotta palestinese è molto forte e in generale, seppure non esistano sondaggi in merito, gli accordi di Abramo sono visti in modo estremamente sfavorevole proprio  a causa  della questione palestinese. Se non ci sono state manifestazioni di piazza dopo il 7 ottobre è solo perché sono vietate dalle autorità. Per un motivo molto semplice: il regime saudita teme che permettendo manifestazioni di solidarietà alla causa palestinese si dia spazio a contestazioni spontanee contro il governo saudita. 
Il caso del Qatar invece è molto differente. La sua vicinanza alla causa palestinese e soprattutto la sua alleanza con Hamas è nota. Ma la differenza principale rispetto alla situazione saudita è che si tratta di un paese estremamente piccolo, con appena due milioni di abitanti e dal peso specifico differente, inteso come impatto delle masse, rispetto a quello dell’Arabia Saudita. L’opinione pubblica di Doha non vede come uno scandalo ospitare i leader di Hamas perché lo vedono come unico interlocutore a Gaza per dare il loro sostegno alla causa palestinese. E qui va fatta una distinzione: i qatarini sostengono Hamas economicamente e mandano aiuti umanitari, ma non forniscono direttamente armi e altri aiuti militari come invece fa l’Iran. 
Giorgio Cafiero, analista e ceo di Gulf State Analytics e professore alla Georgetown University
 


 

Negli Emirati Arabi Uniti. Negli Emirati Arabi Uniti, l’opinione pubblica è in maggioranza filo palestinese, nonostante il governo sia stato il primo a normalizzare le relazioni con Israele con  gli  accordi di Abramo nel 2020. Da allora, decine di migliaia di israeliani hanno visitato gli Emirati Arabi Uniti e molti emiratini hanno interagito con israeliani e persone apertamente ebree. La comunità ebraica del paese, che era rimasta nell’ombra, è stata pubblicamente normalizzata e persino abbracciata dal presidente Mohammed Bin Zayed Al Nahyan. La Abrahamic Family House di Abu Dhabi – un complesso congiunto moschea-sinagoga-chiesa finanziato dal governo – è una testimonianza pubblica di questo sforzo. Tuttavia, sotto lo sfarzo e la mediatizzazione degli accordi di Abramo si nasconde un’opinione pubblica decisamente solidale con la causa palestinese. I sondaggi di opinione su questo tema sono difficili e il governo controlla l’espressione pubblica degli emiratini su questo tema, vietando anche tutte le proteste su questa e altre questioni (alcuni paesi del Golfo, tra cui Qatar e Arabia Saudita, vietano le manifestazioni pubbliche). Gli Emirati Arabi Uniti non hanno quindi assistito a grandi proteste pro Palestina come alcune capitali arabe che non possono o non vogliono vietare le manifestazioni su questo tema, tra cui Marocco, Tunisia, Egitto e Giordania.  Molti emiratini guardano i servizi di Al Jazeera   sul  tema attraverso YouTube e i social media, nonostante il governo vieti il sito web e il canale via cavo di Al Jazeera. Spesso sono affranti e disgustati dalla violenza di Israele contro i civili palestinesi, anche se molti ritengono che anche Hamas abbia commesso gravi atti di violenza. Il governo degli Emirati Arabi Uniti si oppone fermamente ad Hamas, che considera un braccio dei Fratelli musulmani, un’organizzazione che ha sfidato politicamente il governo degli Emirati e molti altri regimi per decenni. Il governo degli Emirati Arabi Uniti sta soppesando il suo sostegno agli accordi di Abramo e gli interessi strategici nel collaborare con Israele con la diffusa simpatia per la causa palestinese tra gli emiratini e con le profonde preoccupazioni per la sicurezza regionale e interna generate dalla portata delle violente rappresaglie di Israele.
Monica Marks, professore di Politiche mediorientali alla New York University di Abu Dhabi

 


 

Nel Golfo. In generale, l’opinione pubblica araba non si pone il problema di stare con Hamas o con i palestinesi. Il luogo dove veramente si sta parlando delle responsabilità di Hamas è invece il Golfo, perché nel Golfo è molto netta dal 2017 l’ostilità ai movimenti islamisti e quindi lì si può trovare, per esempio,  il giornalista saudita che ha fatto un’intervista su un  canale YouTube del Kuwait – il Kuwait ha l’audience più pro palestinese del mondo arabo – in cui parla delle responsabilità di Hamas, si chiede che cosa Hamas pensasse di ottenere, in cui si dice che era chiaro che avrebbe scatenato tutto questo, e che a loro non interessa nulla dei palestinesi. Questa è una linea che sta emergendo molto di più nel Golfo rispetto al resto dei paesi arabi.
Cinzia Bianco, European Council on Foreign Relations, esperta dei paesi del Golfo 

 


 

Nella storia. Il mondo arabo si è mostrato solidale nei confronti di Hamas, ha visto nel massacro delle popolazioni civili del 7 ottobre un atto eroico, una vendetta per l’umiliazione araba contro lo stato di Israele, visto come il riflesso della propria incapacità di esistere. Vedere nei corpi di bambini legati e bruciati insieme un’azione di resistenza mette in luce l’esistenza di un conflitto di civiltà, checché ne dica l’orda gregaria che già grida al razzismo. A lungo simbolo del disprezzo nell’economia psichica del mondo arabo-musulmano, l’ebreo ha deciso di costruire uno stato sovrano e brillante che da 75 anni gli tiene testa. La psiche collettiva araba vive lo stato di Israele come un’offesa che il massacro del 7 ottobre ha lavato. La sua solidarietà con Hamas traduce l’incapacità di accettare lo stato ebraico, l’incapacità di pensare contro se stesso e la propensione a rifugiarsi nel complottismo.
Georges Bensoussan, storico francese esperto in Storia ebraica e antisemitismo 

 



Negli slogan. Penso che sia necessario distinguere la “piazza araba” dagli stati arabi. L’attacco di Hamas, in accordo con la strategia iraniana di destabilizzazione del vicino oriente, era destinato in particolare a impedire la normalizzazione dei rapporti di Israele con l’Arabia Saudita e altri paesi arabo-musulmani. Questi ultimi non hanno alcun interesse nel fatto che la causa palestinese si islamizzi in seguito alla sua strumentalizzazione geopolitica da parte dell’Iran e dei suoi alleati islamo-terroristi, a cominciare da Hamas. Tuttavia, la propaganda islamista rischia di infiammare le folle arabe, fatto che costringe gli stati arabi a fare delle dichiarazioni pro palestinesi assolutamente ipocrite. La guerra delle immagini e degli slogan mi sembra, oggi più che mai, determinante.
Pierre-André Taguieff

 

A cura di Luca Gambardella, Priscilla Ruggiero con la collaborazione di Mauro Zanon, Cecilia Sala e Rolla Scolari