il conflitto

Israele ha una lezione sulla comunicazione da imparare da Kyiv

Il tempo tra il fatto, l'annuncio di Hamas e gli accertamenti è stato lungo, ma nel frattempo molti media, organizzazioni umanitarie e persone in tutto il mondo avevano introiettato che il colpevole dell'ospedale al Ahli era lo stato ebraico e in pochi hanno rettificato

Micol Flammini

Cosa sarebbe successo a Kyiv se non ci fosse stato Zelensky? La resistenza ne sarebbe uscita indebolita. Gli israeliani sanno da soli perché combattono, ma per il resto del mondo è più facile credere a Hamas che a Gerusalemme. La guerra dell'informazione tra un gruppo terrorista che spara notizie e uno stato che deve verificare ogni parola

Cosa sarebbe accaduto in Ucraina se il presidente Volodymyr Zelensky, l’esercito, i ministri non fossero stati bravi nel comunicare? Cosa sarebbe accaduto se Zelensky non avesse deciso di dare appuntamento ogni sera ai suoi cittadini e al mondo per raccontare la giornata di guerra? Cosa, se non si fosse messo davanti ai palazzi delle istituzioni ucraini per pronunciare quella parola brevissima e potentissima “tut”, che vuol dire qui, ma significava qualcosa di più: sono rimasto,  sono con voi, non mi muovo? Probabilmente la guerra sarebbe cambiata di molto e la resistenza ne avrebbe risentito. L’Ucraina con il suo presidente ha mostrato quanto la comunicazione in tempo di guerra sia utile per i cittadini stessi e anche per il sostegno internazionale. In Israele sia la comunicazione interna sia quella esterna sono state insufficienti e lacunose creando anche un problema di sostegno soprattutto da parte dell’opinione pubblica internazionale, già propensa ad accusare Gerusalemme. 

 

La mattina del 7 ottobre, quando Israele è stato attaccato, le istituzioni hanno tardato a parlare, i cittadini hanno reagito indipendentemente, curandosi poco della comunicazione istituzionale,  e  gli stessi che fino a qualche giorno prima protestavano, si stavano organizzando per reagire. Tutta Israele era pronta, il premier Benjamin Netanyahu e i suoi ministri erano immobili. Fuori dallo stato ebraico le immagini di violenza e crudeltà che arrivavano dai kibbutz invasi vicini alla Striscia venivano diffuse soprattutto  dai canali di Hamas con l’obiettivo di esortare altri terroristi a seguire l’esempio. Le reazioni in sostegno di Israele sono durate troppo poco, quando Gerusalemme ha iniziato la sua operazione a Gaza la macchina della disinformazione di Hamas aveva già iniziato a muoversi con effetti devastanti. Il più dannoso riguarda sicuramente l’ospedale di al Ahli a Gaza city. A pochi istanti dal colpo, il gruppo terrorista aveva già puntato il dito contro Israele e annunciato che erano state uccise cinquecento persone. “Hamas ha denunciato il numero delle vittime pochissimi minuti dopo, non c’era il tempo neppure per un calcolo approssimativo. L’esercito israeliano invece, dice al Foglio Tal Rabina, ha detto che avrebbe fatto degli accertamenti”. Il tempo tra il fatto, l’annuncio di Hamas e gli accertamenti è stato lungo, ma è stato il tempo doveroso per dare una risposta corretta. Nel frattempo però molti media, organizzazioni umanitarie e persone in tutto il mondo avevano introiettato il nome del colpevole ed erano pronti a denunciare Israele. Tal Rabina è un esperto di media e gestione delle crisi della European jewish association, ha lavorato con l’esercito  e con agenzie governative, si intende di comunicazione e si rende conto di quanti rischi siano collegati al fatto che Hamas vinca sul piano dell’informazione. “C’è anche un problema tecnico, il giornalismo oggi lavora spesso in due tempi. I giornalisti sono spesso ansiosi di mettere tutto prima sui social, non c’è   tempo  per l’incertezza. Tutto si è velocizzato e Hamas può pubblicare qualsiasi comunicato, qualsiasi annuncio senza verifiche, non ha interesse per l’accuratezza, e viene ripreso” e preso anche per verità:  ieri l’account di Medici senza frontiere parlava ancora del “bombardamento israeliano” contro l’ospedale quando non c’è stato nessun bombardamento israeliano e l’edificio non è stato colpito.  Dall’altra parte invece, l’esercito israeliano sa bene quanto siano forti la sfiducia e lo scetticismo nei suoi confronti, quindi sa altrettanto bene che non può permettersi di essere inaccurato. Per questo, dopo la notizia del bombardamento all’ospedale ha risposto: stiamo indagando. Soltanto con le prove in mano ha dichiarato che si era trattato di un razzo sparato dal Jihad islamico. Anche altre fonti indipendenti hanno analizzato video e immagini, anche il presidente americano Joe Biden ha appoggiato la versione israeliana, ma ormai era tardi, nessuno era più interessato all’analisi accurata. Numeri e immagini sono la forza di Hamas, che non ha bisogno di verifiche o accuratezza. 

 

Il governo israeliano sta lavorando sulla comunicazione, ma è arrivato tardi e sul ritardo pesa anche una classe politica disorganizzata, ministri che non si fidano l’uno dell’altro, e che prima di parlare devono mettersi d’accordo. Questa è un’altra differenza con l’Ucraina, in cui tutti, da Zelensky ai suoi vice, dai funzionari della Difesa all’intelligence si muovono come un solo uomo. Se l’esercito israeliano dovesse entrare dentro Gaza, come ieri il ministro Yoav Gallant ha ripetuto, le conseguenze sarebbero sconvolgenti anche per Gerusalemme. Le immagini delle bare dei soldati caduti sarebbero utilizzate da Hamas per fomentare altri terroristi e per demoralizzare la popolazione dello stato ebraico. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.