negli stati uniti

Lo stallo in America su Israele e Iran

Giulia Pompili

I trumpiani accusano Biden di essere debole con l’Iran. La crisi di credibilità con Robert Malley e lo stallo al Congresso

Sabato l’ex presidente americano Donald Trump ha commentato l’attacco di Hamas contro Israele con una notizia falsa. Ha detto che “i contribuenti americani hanno aiutato a finanziare questi attacchi, che secondo molti report arrivano dall’Amministrazione Biden”. I repubblicani trumpiani come il candidato Vivek Ramaswamy da giorni sostengono che a finanziare  l’attacco a sorpresa siano stati i sei miliardi di dollari, congelati in alcuni istituti bancari della Corea del sud, che la Casa Bianca ha sbloccato tre settimane fa come parte dell’accordo per la liberazione di cinque  americani prigionieri in Iran.

L’accordo prevedeva che Teheran potesse usare quei fondi solo per materiale non sotto sanzioni e per aiuti umanitari, e sotto il controllo americano. Il segretario di stato Antony Blinken ieri ha fatto sapere che “a oggi non è stato speso neanche un singolo dollaro da quei conti”. I soldi sbloccati dall’Amministrazione Biden non c’entrano con l’attacco coordinato e su larga scala di sabato contro Israele, ma per Trump ogni occasione è buona per servire la causa della frattura dentro alla politica americana. Dopo il caos della scorsa settimana, con la destituzione dello speaker della Camera Kevin McCarthy, il Congresso è paralizzato, una condizione che rischia di rallentare una risposta adeguata alla guerra in Israele, l’alleato più importante dell’America in medio oriente. 

Stephen Collinson della Cnn, uno dei giornalisti politici più autorevoli, ha scritto ieri che “una situazione così pericolosa richiede una risposta degli Stati Uniti calma, unita e ponderata, sostenuta da tutto lo spettro politico. Ma il tumulto nella politica americana – tormentata dall’estremismo interno, dalle minacce alla democrazia e dall’iperpoliticizzazione della politica estera – significa che sarà un compito impossibile riunire il paese in un momento pericoloso”.

Anzitutto c’è il problema dell’ambasciatore americano in Israele, designato da Washington ma in attesa di conferma dal Congresso. Ieri il presidente della commissione per le Relazioni estere del Senato, il democratico Ben Cardin, ha detto di sperare che i colleghi senatori “si uniscano a me nel confermare” l’uomo designato poco più di un mese fa, Jack Lew, il prima possibile. Il repubblicano Ted Cruz, uno dei fedelissimi del trumpismo che crede che Biden non sia il presidente legittimo, è tra i volti di chi ha lanciato l’ostruzionismo sulle nomine della Casa Bianca in medio oriente perché i funzionari “continuano a mentire al Congresso” e vorrebbero fare “un accordo nucleare segreto e sigillato con l’Iran”. Jacob Lew, ex segretario al Tesoro di Barack Obama proprio nel 2015, non piace ai repubblicani trumpiani e alla destra israeliana perché aveva lavorato al dialogo e all’accordo con Teheran. 

 


L’altro problema riguarda  Robert Malley, l’ex presidente del centro studi di Washington International Crisis Group che dal gennaio del 2021 era l’inviato speciale per l’Iran dell’Amministrazione Biden. Malley a luglio – e senza dare troppo nell’occhio – è stato sospeso dal suo incarico per questioni legate alla gestione delle informazioni classificate e ai suoi presunti legami con l’intelligence iraniana. La sua è una storia controversa, piena di coni d’ombra e quindi facilmente manipolabile per chi vuole a tutti i costi dimostrare la connivenza della Casa Bianca di Biden con chi vuole la cancellazione di Israele. A fine settembre un’inchiesta di Semafor ha messo in luce i legami di tre collaboratori di Malley con la Iran Experts Initiative, un’associazione messa in piedi da Teheran per rafforzare la sua proiezione e influenza internazionale. Gran parte dell’inchiesta si basa su email di una decina di anni fa scambiate dall’associazione con vertici di Teheran, e sebbene il dipartimento di stato americano neghi che ci sia una vera “infiltrazione” da parte dell’Iran nelle istituzioni americane, c’è un problema gestito in modo maldestro. Malley, che è sotto indagine anche da parte dell’Fbi, per ora non è accusato di nulla, ma le uniche notizie che si hanno su di lui vengono da media iraniani di stato – è stato il Teheran Times che, allegando documenti del governo americano, ha scritto per primo che a Malley era stata comunicata l’inchiesta su di lui il 21 aprile scorso, ma la notizia è stata confermata dal diretto interessato solo a fine giugno. Sabato scorso la giornalista Laura Rozen ha scritto che a far circolare le email alla base dell’inchiesta di Semafor era stato “un ex alto funzionario dell’Amministrazione Trump” al fine di “diffamare gli esperti americani dell’Iran e l’Amministrazione Biden”.

Ieri Blinken ha detto che per ora “non abbiamo  visto prove che l’Iran abbia diretto o sia dietro questo particolare attacco, ma certamente c’è una lunga relazione” fra Teheran e Hamas. Anche Israele si muove con prudenza, ma il problema a Washington oggi è il Congresso che deve dotarsi di un nuovo speaker, che è sotto assedio dell’ala trumpiana del Partito repubblicano di maggioranza e che tiene bloccata ogni decisione, che sia il funzionamento della macchina interna americana o di quella internazionale. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.