l'intervista

Le lezioni di Vladimir Kara-Murza

Il bullismo eletto a sistema di governo e la repressione prima o poi valicano i confini. Non sono mai un fatto che riguarda la politica interna di un paese, riguarda la comunità internazionale

Micol Flammini

L'oppositore di Putin è detenuto in Siberia, ha sempre creduto nella democrazia e nel futuro di una Russia libera, per questo ha lottato, è stato avvelenato, ora è in una cella di isolamento nonostante i suoi problemi di salute. Sua moglie Evgenia ci racconta la sua storia, da quando piccolissimo fondò l'Unione dei bambini democratici

L’immagine dello schermo del telefono è molto comune, potrebbe averla ognuno di noi. Ci sono lui e lei, marito e moglie. Lui la abbraccia e lei sorride. Lei sorride anche ora, ha due occhi enormi che accompagnano le sue parole accendendo speranze e spegnendo lacrime, ma i due non si abbracciano più, perché lui è detenuto in una cella di disciplina in Siberia. Si chiama Vladimir Kara-Murza, è un giornalista e un politico che ha trascorso la sua vita nel tentativo di costruire la democrazia in Russia, un mestiere molto pericoloso nel paese in cui Putin è al  potere da vent’anni. Sua moglie, Evgenia, non è una politica, non lo è mai stata, scansa tutte le domande sulle strategie e i piani per il futuro, per quelli, dice, bisogna chiedere a suo marito, è il suo mestiere. “La parola è la mia unica arma per continuare il lavoro di mio marito”, dice al Foglio. Evgenia Kara-Murza resiste, “non ho altra scelta come moglie, come madre e come russa. Lotto per la mia vita, per quella di mio marito e per quella che avevamo immaginato insieme. Come cittadina russa sono devastata per quello che sta accadendo in Ucraina e cerco di fare il possibile per smascherare il regime di Putin e per mostrare alla comunità internazionale cosa sta accadendo”. Lei e Vladimir hanno tre figli  che sanno tutto, dove si trova loro padre, perché, cosa ha subìto e cosa accade nel mondo: la guerra fuori e la guerra dentro. “Non abbiamo mai tentato di imbellettare la situazione, da quando la guerra è iniziata contro l’Ucraina nel 2014 e quando poi è iniziata contro la nostra famiglia nel 2015. E’ stato un anno dopo l’annessione della Crimea che Vladimir ha subìto il primo avvelenamento, il nostro figlio più grande allora aveva nove anni.  Quando è stato avvelenato la seconda volta ne aveva undici, i nostri figli sono cresciuti con questo, con il senso della labilità, del rischio e della lotta”. Non si può essere figli normali, genitori normali, cittadini comuni con un regime che ti insegue. Non si può essere una famiglia qualsiasi quando convivi con la paura e la malattia, “i miei figli si sono spaventati ogni volta che gli  hanno visto fare le valigie, sono spaventati ora che sanno che è nel mezzo della Siberia”.

 

La normalità si trasforma in ambizione in questo – Evgenia cerca le parole nella sua mente, le pesa tutte, come definire quello che sta vivendo, sembra chiedersi, poi trova il termine giusto, lo pronuncia titubante – “inferno”. Il ruolo di Evgenia, racconta, è “mostrare che metterò tutto a posto anche se non ho idea di come riportare Vladimir a casa o di come far finire la guerra. Mio marito invece continua a dare loro insegnamenti, anche adesso che è in prigione sta dando una lezione cruciale e straziante, insegna che bisogna sempre opporsi ai bulli, non puoi lasciare che ti facciano quello che non vuoi, non puoi rimanere in silenzio e devi sempre sostenere le tue idee, sapendo che ci sono rischi. So che in lui vedono il coraggio e si rendono conto del rispetto che suscita in tutto il mondo”. Era proprio la storia di un bullo quella di Vladimir Putin all’inizio della sua carriera, era il potere esercitato come capacità di punizione, ritorsione e minaccia. Se poi a capo di un paese,  il modo di vedere il mondo di un bullo viene messo a sistema, diventa un regime in cui chi si oppone rischia la morte o l’annullamento. Evgenia sa poco o nulla di Vladimir, sa che si trova in Siberia, in una cella di isolamento e le notizie che le arrivano sono tramite il suo avvocato: “Gli avvocati sono degli eroi nella nostra società, molti sono finiti in carcere a loro volta, sono l’unica connessione tra i prigionieri e il mondo esterno. Vladimir vive in una stanza piccolissima, con il letto che è attaccato al muro dalle sei del mattino alle nove di sera, ha soltanto un’ora e mezza al giorno per scrivere o leggere. E’ una condizione di tortura. Secondo la legge russa in cella disciplinare non si può rimanere per più di quindici giorni, ma di fatto Alexei Navalny ci sta vivendo. Secondo la legge russa, Vladimir non sarebbe dovuto proprio essere in prigione a causa delle sue condizioni di salute”. Gli avvelenamenti hanno lasciato sul corpo dell’oppositore dei gravi problemi, soffre di polineuropatia, “danneggia i  nervi periferici. Per un periodo non ha potuto muovere mani e piedi, poi è stato meglio, ha recuperato grazie a un esercizio regolare. Ma quando era detenuto a Mosca, soltanto dopo cinque giorni, già i problemi si erano ripresentati. Non so se uscirà dalla cella di disciplina e come ne uscirà. Se ne uscirà e se potrò rivederlo”. La condanna contro Kara-Murza è per tradimento, ma contro di lui sono state ammassate accuse su accuse, per fare in modo che la condanna potesse essere più lunga possibile. “Il regime usa tutto l’arsenale di tecniche sovietiche”, è tornata la legge di Stalin. 

 

Quando la Russia diventerà democratica, bisognerà partire da qui, dalla legge di Stalin, dagli abusi, “vanno documentati, proprio come si raccolgono le prove dei crimini di guerra in Ucraina, bisogna mettere da parte le prove sulle violazioni nel nostro paese e vanno mostrati. Negli anni Novanta, dopo la fine dell’Unione sovietica, sentivamo l’aria di libertà, ma uno dei grandi errori dei leader è stato non guardare al passato, andare avanti e quindi rimuovere i crimini sovietici. Le persone invece avrebbero dovuto sapere, così sono passate da una propaganda all’altra”. Prima di ogni cambiamento deve arrivare la vittoria dell’Ucraina, alla quale, dice Evgenia, è impensabile chiedere compromessi, bisogna mostrare il fallimento di Putin e costruire una Russia che non sia più una minaccia, quindi che sia democratica. “Ora Putin attende che si arrivi a un accordo che conceda a Mosca i territori occupati. Dopo  quell’accordo, attenderà ancora per ricominciare”. Ci sono voluti vent’anni prima che il presidente russo costruisse il suo regime, è andato avanti per prove, un passo alla volta: “Ha provato e non ha visto reazioni, allora è andato avanti e non ha visto reazioni, così ha continuato. Prima dell’Ucraina ci sono state la Cecenia, la Georgia, la Siria e la Crimea”, ricorda Evgenia. La repressione interna prima o poi valica i confini, ed è quello che è accaduto in Russia.  

 

Nei giorni in cui Putin ammassava uomini e mezzi ai confini dell’Ucraina, Kara-Murza  non aveva dubbi  che l’invasione sarebbe iniziata, quando l’attacco è partito ha deciso di tornare a Mosca per protestare, perché non poteva pretendere di dire ai russi di resistere se non era lui il primo a farlo. E’ tornato consapevole delle conseguenze, della prigione o di un nuovo avvelenamento. E’ tornato perché crede che la battaglia per la democrazia in Russia vada combattuta e se verrà vinta sarà un bene per tutti. “Quando ho incontrato Vladimir la prima volta aveva dieci anni ed era già un politico. Formò il suo primo partito che contava tre membri, si chiamava Unione dei bambini democratici, o qualcosa del genere. Ne era orgogliosissimo e voleva parlare a tutti i bambini che nutrivano i suoi stessi valori. Crede nella democrazia da quando è nato. Possiamo dire che la sua carriera politica è davvero molto lunga. Un bambino prodigio”, Evgenia sorride, ma non scherza, guarda lo schermo del telefono e quell’abbraccio che assomiglia tanto al ritratto di come vogliamo immaginare la Russia che verrà. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.