il vertice

Perché Pechino non vuole Taiwan all'Assemblea dell'Onu

Giulia Pompili

La Cina manda il capo della sua diplomazia a Mosca, mentre il mondo si riunisce a New York. Ma impone l’esclusione di Taipei dall'Assemblea 

Il capo della diplomazia della Repubblica popolare cinese, Wang Yi, non sarà a New York in questi giorni. Non sarà lui a rappresentare il governo cinese in una delle Assemblee generali dell’Onu più importanti degli ultimi anni, perché già impegnato nell’ennesima visita a Mosca, quattro giorni di “consultazioni strategiche sulla sicurezza” iniziati ieri e durante i quali probabilmente incontrerà anche il presidente russo Vladimir Putin. Al posto di Wang Yi, e in rappresentanza del leader Xi Jinping che sta saltando tutti i vertici internazionali come il G20, alla 79° Assemblea generale dell’Onu ci sarà il vicepremier cinese Han Zheng, che nella nomenclatura della leadership cinese ha un ruolo per lo più cerimoniale. Secondo diversi osservatori quest’anno saranno il presidente americano Joe Biden, unico leader del Consiglio di sicurezza presente, e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a prendere la scena dell’Assemblea. Ma quest’anno, più di altre volte, nel nuovo mondo in conflitto voluto dai paesi autoritari si noterà l’assenza di Taiwan, la Repubblica popolare di Cina che da anni chiede di poter essere ammessa almeno come membro osservatore, come la Palestina, la Santa Sede e l’Ue.

 

La risoluzione dell’Onu del 1971 riconosce la Repubblica popolare cinese come legittima rappresentante della Cina alle Nazioni Unite: da allora, la partecipazione di Taiwan a qualsiasi attività legata all’Onu è preclusa e boicottata da Pechino. Ma negli anni Taipei ha contribuito concretamente agli affari internazionali (durante il Covid, per esempio), e dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina si è iniziato ad aprire uno spiraglio diplomatico in suo favore. La richiesta di ammissione è stata rinnovata dal ministro degli Esteri di Taiwan, Joseph Wu, che in una lettera ai giornali internazionali ha scritto che le conseguenze della guerra in Ucraina “hanno dimostrato che in un mondo globalizzato le crisi non possono essere contenute all’interno dei confini nazionali. E’ quindi indispensabile impedire che simili minacce alla sicurezza globale si verifichino altrove”. Per esempio a Taiwan, una democrazia autogovernata che la Cina rivendica come parte del proprio territorio pur non avendola mai governata, che “continua ad affrontare le enormi sfide poste dalla Cina”. Per Wu, un buon primo passo potrebbe essere quello di “permettere a individui e giornalisti taiwanesi di partecipare o coprire le riunioni pertinenti”, perché per ora i taiwanesi non possono nemmeno presentarsi al Palazzo di Vetro di New York. Zhang Jun, ambasciatore cinese all’Onu, ha definito la proposta “l’ennesima farsa delle forze separatiste di Taiwan”, ma l’altro ieri la vicesegretaria generale dell’Onu, Amina Mohammed, ha detto che “ogni esclusione è un ostacolo ai nostri obiettivi”. 


Partecipare all’Onu significa esistere, l’istanza inaccettabile per Pechino, che continua con le prove di forza: ieri c’è stato un nuovo record di aerei da guerra lanciati verso l’isola, più di cento, come parte di una sistematica intimidazione militare. La Cina, in cerca di legittimità per la sua

leadership globale, la scorsa settimana ha pubblicato un documento “sulla riforma e lo sviluppo della governance globale”, nel quale invita la comunità internazionale a rimettere l’Onu al centro delle relazioni internazionali. Come spesso succede con i documenti cinesi di questo tipo, il linguaggio è volutamente ambiguo e serve a dire: le regole, però, le decidiamo noi. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.