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Giochi di spie

“Top Secret” a Madrid è la mostra che indaga le zone d'ombra della “società del controllo”

Maria Pia Farinella

Cinema e agenti segreti, da James Bond e Mata Hari. “Non c’è dubbio che spiare sia mestiere vecchio come il mondo"

Qual è il mestiere più antico del mondo? Niente risposte scontate. Sareste archiviati nell’archeologia di genere, che nemmeno i patriarchi della Bibbia. Pensate alla Genesi, libro sacro per eccellenza. Prototipo di qualsiasi narrazione, anche la più irriverente. Pensate al serpente che si insinua nel giardino dell’Eden, guata Adamo ed Eva, falsifica la parola divina e con l’inganno procura dolore e morte ai viventi. Pensate a Caino e Abele. A quella smania di Caino di scrutare il fratello minore mentre pascola le pecore e offre sacrifici al Signore. In un crescendo di invidia e livore che fa di lui il primo assassino dell’umanità. Ecco. “Non c’è dubbio che spiare sia mestiere vecchio come il mondo. Per questo la spy story è il genere più antico del cinema. Coincide con gli esordi e continua fino a oggi. Il cinema ha reso popolare lo spionaggio. Anche con la parodia”. A parlare è Matthieu Orléan, curatore insieme con Alexandra Midal di Top Secret: cine y espionaje in mostra al centro culturale CaixaForum di Madrid fino al 22 ottobre. Un programma fitto di proiezioni, simposi, visite guidate. C’è perfino un menù Bond nella Terraza del centro. Poi a novembre la rassegna si trasferisce a Barcellona e nel 2024 a Saragozza, Siviglia, Valencia.

Quasi trecento gli oggetti esposti tra dispositivi elettronici, documenti veri o artefatti, pezzi di design, abiti di scena, opere d’arte. Come il ritratto pop di Mata Hari col volto di Greta Garbo realizzato da Andy Warhol. Ci sono accessori micidiali sotto parvenze innocue: l’ombrello con la punta avvelenata, le scarpe con il coltello retrattile, il rossetto con la pistola. E misconosciuti strumenti per “addetti ai lavori” come Fialka, che in russo significa “violetta”, il fiore nascosto dell’umiltà. Sembra quasi una macchina per scrivere ed è il simbolo della crittografia sovietica ai tempi della Guerra fredda. Nulla è come appare.
Benvenuto nel mondo dell’inganno, della dissimulazione, della ragion di stato classificata “top secret”. All’ingresso ti accoglie un imponente lampadario di vetro di Murano dell’artista britannica Cerith Wyn Evans. Ci passi sotto e nemmeno ti accorgi che comincia a lampeggiare. Sta comunicando il tuo arrivo con l’alfabeto morse. A chi? L’installazione luminosa è il principio di un labirinto che sviluppa trame e intrecci sul filo della storia. Cinque i temi: gli esordi del cinema e l’invenzione delle tecniche di vigilanza alla fine del XIX secolo, il ruolo della donna spia soprattutto durante i conflitti mondiali, la Guerra fredda, la lotta al terrorismo che dà impulso alla “sorveglianza globale” attraverso il web e il fenomeno contemporaneo del “cittadino delatore”.

L’esposizione – nata a Parigi presso la Cinémathèque française, adesso in Spagna grazie alla collaborazione con la Fondazione La Caixa – si fonda su una tesi: cineasti e spie si somigliano, giocano sullo stesso piano, usano le stesse tecniche per registrare la realtà e, insieme, per falsificarla. Il fascino oscuro della manipolazione trascina gli spettatori. Per una volta consapevoli, o quasi, di quanto sta avvenendo sotto i loro occhi. Il che fa riflettere sul volto del potere. Sempre che il potere abbia un volto. Nei novanta frammenti di film e di serie tv in mostra si inquadra piuttosto la potenza dell’immagine. Che talvolta racchiude un’intera narrazione. Lo ricorda in premessa Frédéric Bonnaud, direttore generale dellaCinémathèque française. Bonnaud scomoda le Historie(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, opera-video sul cinema, sulla letteratura, le arti e la scienza, elaborata nell’arco di dieci anni dal grande regista francese, il quale giusto un anno fa, il 13 settembre 2022, ha fatto ricorso al suicidio assistito in Svizzera, perché “esausto”, non perché malato. 

Delle Historie(s) di Godard, autentica chicca per cinefili, Bonnaud cita il capitolo su “Il controllo dell’universo” che riguarda la dialettica tra potere e immagine. Con l’immagine che si avvicina a Dio. Perché, se è in grado di imporsi, controlla l’universo. In questo senso Godard considerava un “conquistatore” Alfred Hitchcock, grazie alla sua “geniale perseveranza cinematografica”. Più di Alessandro Magno, Giulio Cesare o Napoleone. “Perché il cinema scruta la nostra intimità, si impadronisce del nostro immaginario, conosce i nostri segreti, sa anticipare i nostri desideri. Così esercita al meglio la funzione di controllo”. Tema quanto mai attuale, certo. Non solo Das Leben der Anderen (Germania 2006) per menzionare un film in rassegna, premio Oscar nel 2007. Le vite degli altri (questo il titolo italiano) si basa sull’operato della Stasi, i servizi segreti della Repubblica democratica tedesca che tutto ascoltavano e tutto registravano a Berlino est prima della caduta del muro.

In ballo ci sono le “nostre” vite. Monitorate, controllate, tracciate passo dopo passo. La chiamano “sicurezza” ed è l’altra faccia della “società del controllo”. Già prefigurata nel 1990 dal filosofo francese Gilles Deleuze che capì che all’epoca della iperconnessione noi stessi avremmo alimentato il sistema. Vale anche per chi sa che le impronte digitali diventano informazioni, algoritmi, segmenti di mercato. Perché le regole del gioco incoraggiano a lasciarle. A beneficio, intanto, delle multinazionali del web che hanno accumulato smodate ricchezze e potere “osservando” i nostri comportamenti e indirizzandoli. Mentre noi continuiamo a coltivare l’illusione di cercare in rete esattamente ciò che vogliamo. Di essere liberi. Top Secret: cine y espionaje ovvero la storia e la geopolitica del Novecento e del XXI secolo. A partire dal cinema muto. Dal corto del 1904 Hero of Liao-Yang, che svela messaggi cifrati durante la Guerra russo-giapponese.  E dalla più nota saga di Protea, investigatrice maestra di travestimento e cultrice di jiu-jitsu, realizzata nel 1913. Passo dopo passo si incontrano i maestri della suspense, capaci di tenere gli spettatori sul filo del rasoio: Alfred Hitchcock, Fritz Lang, John Huston. Poi i blockbuster, i successi alla James Bond, l’agente segreto più iconico di sempre. Una saga iniziata nel 1962 e mai conclusa. Prova provata del “cinema come specchio che amplifica la realtà”, per dirla coi curatori. Figuriamoci nell’arco di sessant’anni e di 25 lungometraggi, senza contare gli “apocrifi”, le serie tv, i videogiochi. Certo, l’agente 007 con licenza di uccidere, autentico dandy britannico circondato da Bond girl, oggi avrebbe qualche problema con gli esegeti del politicamente corretto. In cambio l’ultimo “Bond… James Bond” si occupa di armi biologiche che diffondono virus attraverso nanobot a Dna.
Top Secret: cine y espionaje arriva ai film e ai video dello scorso anno. Come The Ipcress File, mini serie tv trasmessa tra marzo e aprile 2022 in Gran Bretagna, che si rifà all’omonimo film del 1965 con Michael Caine nei panni della spia. Ipcress è l’acronimo in inglese del processo di “induzione di psiconevrosi attraverso riflessi condizionati sotto stress”. In una scena madre Caine deve resistere alla tortura del lavaggio del cervello, attuata mediante la ricezione “passiva” di informazioni, immagini e suoni dentro lo spazio ridotto in cui è confinato. Un bombardamento audiovisivo fatto apposta per assediare il protagonista fino a rincretinirlo. 

L’espediente si ispira a un dispositivo chiamato Knowledge Box, progettato negli anni Sessanta dal designer americano Ken Isaacs appassionato di “didattica immersiva”.  Le didascalie della mostra ricordano come Isaacs sia stato contattato dalla Cia, interessata alla Knowledge Box per il programma segreto di controllo mentale MK-Ultra (Mind Kontrolle Ultra, chissà perché denominato in tedesco) sperimentato dall’intelligence Usa su esseri umani a loro insaputa. La camera del lavaggio del cervello è una delle proposte interattive del percorso al CaixaForum di Madrid. Sarà una versione ridotta e adattata all’occasione, ma pochi visitatori resistono oltre il minuto. Il brainwashing, il controllo mentale che rende l’uomo simile a un burattino è il tema anche del film di Jonathan Demme The Manchurian Candidate del 2004, con uno straordinario Denzel Washington nei panni del maggiore Bennet Marco, veterano di guerra degli Stati Uniti, il quale viene “programmato” per assassinare gli antagonisti politici della Manchurian Global senza che i mandanti vengano neppure sfiorati. In gioco c’è la presidenza degli Stati Uniti. 

Per diventare un sicario “a comando” Bennet Marco è stato sottoposto di nascosto a sofisticati esperimenti medici, incluso l’impianto di un microchip nel corpo. Il film del 2004 è un remake dell’omonimo film del ’62 per la regia di John Frankenheimer con Frank Sinatra protagonista (titolo italiano: Va’ e uccidi). Solo che negli anni Sessanta, in piena Guerra fredda, la Manciuria è la regione della Cina in cui i prigionieri americani subiscono il lavaggio del cervello attraverso ipnosi. Nel 2004 i meccanismi di controllo e sorveglianza sono diventati molto più sofisticati e la Manchurian Global è un’onnipotente corporation legata a filo doppio allo stato profondo Usa. The Manchurian Candidate in entrambe le versioni e tanti altri spezzoni di pellicola esposti a Madrid testimoniano il versante “scientifico” dello spionaggio, sviluppato in ambito militare e non solo. Con il pericolo di sacrificare l’etica e i diritti fondamentali dell’uomo sull’altare della sicurezza, vera o presunta che sia.

Non solo la fiction riflette la realtà. Talvolta la influenza e la anticipa. Top Secret aiuta a capire i segreti della fiction, ma anche i legami con fatti verificati, davvero avvenuti. Con tante curiosità. Per esempio, la storia dell’austriaca Hedy Lamarr, “la donna più bella del mondo”, divenuta diva di Hollywood per sfuggire al nazismo in patria. A Vienna aveva iniziato gli studi di ingegneria e negli Stati Uniti nel 1941, a soli 27 anni, brevettò il Secret Communication System che è il fondamento delle connessioni wireless. L’invenzione di Lamarr era finalizzata a un sistema di guida a distanza per siluri, ma l’esercito americano snobbò il progetto, salvo poi riprenderlo e svilupparlo molti anni dopo, a brevetto scaduto. Fu un talento precoce anche come attrice. A diciotto anni interpretò nuda la prima scena di orgasmo della storia del cinema nel film cecoslovacco Ekstase. 

La vicenda di Hedy Lamarr e del suo ingegno dimostra “la complessità dello spionaggio al femminile, molto oltre la rappresentazione della femme fatale”, afferma Alexandra Midal sottolineando l’attenzione posta nell’evitare “stereotipi e trappole come el sexpionaje, lo spionaggio sexy”. Il risultato è uno sguardo inedito su attrici, registe e spie. Mata Hari, per esempio. Emblema di spia femme fatale. La danzatrice dalle molte vite che si fece agente segreto durante la Prima guerra mondiale pagò la sua ambiguità col plotone di esecuzione. In mostra a Madrid due tra i molti film a lei dedicati e tanti documenti sulla vera storia. Con la citazione dello storico Frédéric Guelton, ex colonello dell’esercito francese: “Mata Hari? Una cortigiana doppiogiochista che non arrivò mai a spiare”. La più famosa interprete di Mata Hari fu Greta Garbo nel film di George Fitzmaurice del 1931. Greta Garbo a sua volta venne assoldata dall’M16 britannico. Sembra che le sarebbe piaciuto uccidere Hitler. “Ha continuato a invitarmi in Germania. Non mi avrebbero mai perquisita”, disse una volta. L’avversione al nazismo l’accomunò all’altra icona degli anni d’oro di Hollywood, la collega e rivale Marlene Dietrich, nata tedesca e naturalizzata statunitense nel 1939. Dietrich rifiutò la corte di Hitler e le proposte di Goebbels di sostenere la propaganda del Terzo Reich. Ma era troppo orgogliosamente berlinese per provare a diventare davvero americana. Interpretò il ruolo dell’Agente X27 al servizio della patria nel film Dishonored di Josef von Sternberg del 1931. Marlene Dietrich “nella vita reale spiò le più alte cariche naziste per conto del OSS, Office of Strategic Services degli Stati Uniti”, ricorda la mostra. 

Con le cineaste statunitensi Kathryn Bigelow e Laura Poitras si arriva alle storie di oggi. Bigelow, prima donna a vincere l’Oscar per la regia nel 2010 con The Hurt Locker, film sui soldati americani in Iraq, ha diretto nel 2012 il lungometraggio Zero Dark Thirty, titolo evocatore dell’ora, trenta minuti dopo la mezzanotte, in cui scattò il 2 maggio 2011 l’operazione top secret delle forze speciali Usa mirata ad uccidere l’uomo più ricercato del mondo: Osama Bin Laden. Kathryn Bigelow documenta fin troppo bene “i segreti segreti” del potere e le attività di intelligence americana nell’arco di dieci anni, dal crollo delle Torri Gemelle nel 2001 all’individuazione e alla distruzione del covo di Bin Laden in Pakistan. L’uscita del film fu accompagnata da polemiche infinite. “Perché conferma senza ombra di dubbio la collaborazione tra cineasti, Cia e Pentagono”. Zero Dark Thirty già nelle prime immagini inquadra la violenza degli “interrogatori potenziati”. Che significano tortura. Gli arcana imperii già descritti da Tacito, tradotti in immagini a giustificare la ragion di stato. Così si arriva alla tappa finale di Top Secret: cine y espionaje. Col fenomeno del “cittadino spia” incoraggiato proprio dalle autorità a segnalare “in nome dell’interesse generale, chi trasgredisce le regole”. Il tema include i whistleblowers, quelli che segnalano le condotte illecite del potere. Come Edward Snowden, “gola profonda” dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (Nsa) degli Stati Uniti, protagonista del documentario del 2014 Citizenfour di Laura Poitras. Lungometraggio incentrato sulle operazioni di sorveglianza di massa effettuate dalla Nsa in concorso con servizi di intelligence di altri paesi, sia nei confronti di cittadini e istituzioni statunitensi che stranieri. Con Citizenfour Laura Poitras vinse l’Oscar per il miglior documentario nel 2015. Nel 2016 il suo film Risk su Julian Assange e i WikiLeaks è stato proiettato al Festival di Cannes.

Un crescendo di inquietudine accompagna il percorso Top secret a Madrid. Perché percepisci che “la società del controllo ci ha reso tutti controllori”, per dirla col sociologo David Lyon, considerato massimo esperto della “cultura della sorveglianza”. Come se non bastasse la mostra si conclude con test in linguaggio cifrato. Certo, alla portata di principianti. Una serie di domande incalzano il visitatore: “Credi di aver lasciato tracce in questa esposizione? Che si può ricavare da queste informazioni? Dove pensi di aver lasciato impronte? E il riconoscimento facciale? Perché hai spiato dal buco della serratura? Come ti senti quando spii? E come ti senti quando scopri che ti hanno spiato?”. Lasci l’ultima sala dove penzolano nell’oscurità 24 “possibili” volti di Chelsea Manning, tutti diversi, stampati in 3D da algoritmi su materiale genetico. Ventiquattro volti venuti fuori dal carcere, in isolamento, che ritraggono questa donna controversa, nata uomo, ex militare Usa, analista di intelligence durante la guerra in Iraq, accusata e condannata per aver divulgato documenti “top secret” e avere attentato alla sicurezza nazionale. Ce n’è abbastanza per interrogarsi sul celeberrimo aforisma di Buddha: “Tre cose non possono essere nascoste a lungo, il sole, la luna e la verità”. Ne siamo ancora certi?

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