Passi indietro

Il marchio di qualità dei prodotti e la Brexit che non si può fare

Paola Peduzzi

Il governo di Londra cede alle pressioni delle imprese britanniche e abbandona il marchio UKCA, che avrebbe dovuto sostituire il nostro CE. L'ultimo esempio degli orpelli burocratici generati dal divorzio inglese dall'Ue, che per "riprendere il controllo" duplica le norme europee. Aumentando i costi

Il governo di Londra ha ceduto alle pressioni delle imprese britanniche e ha abbandonato l’idea di costringerle a  utilizzare il marchio post Brexit di qualità dei prodotti “UKCA” al posto di quello dell’Unione europea, il nostro “CE” (Conformità europea).

Quando è stato siglato l’accordo sulla Brexit, un documento di quasi mille pagine che non risolveva nemmeno tutte le questioni aperte dal divorzio inglese, s’era già avuto il sospetto che il desiderio di Londra di liberarsi dagli orpelli ideologico-burocratici comunitari fosse insoddisfabile, visto che da quel momento in poi ogni aspetto dei rapporti tra l’isola e il mercato comune continentale avrebbe dovuto essere regolato di nuovo. La prima certezza è arrivata ascoltando le lamentele dei camionisti diretti a Dover, in uscita e in entrata dal Regno, costretti a compilare moduli su moduli mai visti fino a quel momento. L’ultima certezza è arrivata con il marchio di qualità post Brexit, quell’UKCA (UK Conformity Assessed) sventolato con orgoglio dal governo inglese come simbolo di autonomia (“ci riprendiamo il controllo della regolamentazione dei nostri prodotti”). La sua introduzione era stata posticipata alla fine del 2024.

Come un po’ tutto quel che riguarda la Brexit, che è la storia di un continuo rimandare l’introduzione di regole nella speranza di trovare una soluzione che non c’è, ora vale un rimando “a tempo indeterminato”, con suggerimento governativo di fare un po’ come si vuole. Il marchio di qualità non è naturalmente soltanto un timbro sull’etichetta, ma è la garanzia del rispetto di standard condivisi di sicurezza per molti prodotti, da quelli elettronici ai giocattoli o ai dispositivi medici: la versione britannica del marchio non è molto diversa da quella europea (si duplica quel che esisteva già!) ma la sua presenza introduce meccanismi di controllo ulteriori, con costi che le imprese inglesi hanno deciso di non volersi sobbarcare.

Non è la prima volta che il governo conservatore di Rishi Sunak cede a queste pressioni – che sono arrivate anche da molti parlamentari conservatori. A maggio, era stato emendato il Retained EU Law Bill, il disegno di legge che prevede che le norme europee in vigore siano sostituite da altre post Brexit (spesso duplicati): in particolare la cosiddetta “sunset clause”, che cancella automaticamente entro il 2023 ogni norma comunitaria non esplicitamente rivista dai Comuni e dal governo e che è stata voluta dagli hard brexiters, è stata modificata.

Lo stesso Parlamento, a maggioranza conservatrice, chiede di aver maggior potere per la revisione di queste norme, in modo da salvaguardare quelle che servono e quelle che sarebbero inutilmente duplicate, rendendo il costo della Brexit ancora più alto di quello che già è.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi