(foto EPA)

Il colloquio

Quanto è profonda la crisi tra America e Israele. L'effetto della pausa

Fabiana Magrì

La "relazione speciale" tra i due paesi è più fredda del solito da alcuni mesi. Ma ora la sospensione dei lavori della Knesset potrebbe essere un fattore di scongelamento. Parla l'analista Eytan Gilboa

Gerusalemme. La “relazione speciale” tra Israele e Stati Uniti è in crisi da qualche mese. Il messaggio di Washington è chiaro: c’è bisogno di un ampio consenso quando si affronta una riforma giudiziaria così profonda come quella avviata dalla coalizione di governo di Benyamin Netanyahu. Ma, pur non amando l’esecutivo al comando, gli Stati Uniti sono con il popolo di Israele e hanno intenzione di distinguere,  per il momento, tra il tema della sicurezza, che resta fondamentale, e le altre questioni. Ma la situazione, verso la fine dell’anno, potrebbe inasprirsi. Nell’analisi che il professore della Bar Ilan University, Eytan Gilboa, esperto di relazioni tra Stati Uniti e Israele, ha condiviso con il Foglio, la pausa dei lavori della Knesset tra fine mese e le festività ebraiche che terminano a metà ottobre è vista come una decisiva opportunità – e la cartina di tornasole – per la tenuta dell’amicizia tra i due storici alleati. Gilboa ritiene che l’esito di questa relazione sia più nelle mani del premier Netanyahu che in quelle del presidente americano Joe Biden.

 

Il New York Times ha ricordato che molto prima di trasferirsi alla Casa Bianca, era il 2004, Biden paragonò il rapporto tra Stati Uniti e Israele a quello di “buoni amici” che si amano, si dicono le cose come stanno, a volte non sono d’accordo l’uno con l’altro e addirittura si fanno impazzire. Ma un disorientamento così, questi due buoni amici, non l’avevano ancora attraversato. “La combinazione e la natura di due crisi, quella interna e il suo riflesso sull’arena internazionale (soprattutto con gli Stati Uniti ma anche con altri paesi in Europa), non si è mai vista prima”, sostiene il professore israeliano, mentre ricostruisce e interpreta i fatti più recenti: la conversazione telefonica tra Biden e Netanyahu la settimana scorsa, l’editoriale di Thomas Friedman sul New York Times, la visita del presidente israeliano Isaac Herzog a Washington e, dopo il voto alla Knesset per abolire la clausola di ragionevolezza, la rassicurazione da parte del dipartimento di stato americano, che non ci saranno tagli agli aiuti militari a Israele e la conversazione tra il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, e il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin. “A Washington – spiega Gilboa – non interessa se ci sarà un cambiamento nelle relazioni tra il Parlamento e il sistema giudiziario israeliani ma insiste sul raggiungimento di un ampio consenso. Parla del procedimento, non necessariamente del contenuto. Gli Stati Uniti, immedesimandosi, interpretano la riforma giudiziaria israeliana paragonandola a un cambiamento nella Costituzione americana. Che richiederebbe un consenso molto ampio: due terzi della Camera dei rappresentanti, due terzi del Senato, tre quarti degli stati americani.”

 

Con la visita di Herzog a Washington e il suo discorso al Congresso, si è visto “il tentativo degli Stati Uniti di distinguere tra il governo e il popolo. A Biden può non piacere Netanyahu e il suo governo, ma il presidente per lui rappresenta gli israeliani. Herzog ha provato a negoziare, dando avvio ai colloqui presso la sua residenza fra coalizione e opposizione”, osserva l’analista. Gli Stati Uniti fanno anche un distinguo tra il primo ministro e il suo governo. “L’Amministrazione Biden non vuole intrattenersi in alcuna conversazione con le fazioni  ultranazionaliste della coalizione, Ben Gvir e Smotrich, ma ritengono Netanyahu responsabile per loro”, continua Gilboa, e solleva un nodo cruciale: “Quando Netanyahu e Biden si sono parlati, il premier israeliano ha detto di non poter negoziare perché l’opposizione è sotto scacco degli organizzatori delle proteste. Ma per il  presidente americano è l’opposto: pensa che sia Netanyahu a essere sotto scacco degli elementi più estremi del suo governo.”

 

Non sappiamo come Netanyahu intenda capitalizzare la pausa dei lavori della Knesset. E’ possibile che si aspetti un calo fisiologico delle manifestazioni, ma i segnali da parte delle organizzazioni delle proteste vanno in tutt’altra direzione. Le ripercussioni economiche si sentono già. “Solo se il governo fermasse la riforma o se Netanyahu riuscisse a negoziare un qualche tipo di consenso con l’opposizione, la situazione potrebbe cambiare. Se per ottobre non si riuscirà a  impedire l’approvazione a senso unico della riforma, credo che questa crisi potrebbe innescare qualche forma di sanzione in campo diplomatico. Gli Stati Uniti potrebbero astenersi dal sostenere Israele in consessi internazionali ostili come le agenzie dell’Onu”, conclude il professore della Bar Ilan.

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