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dopo il voto

La via per governare in Spagna passa per Puigdemont, ed è un guaio

Guido De Franceschi

Le acrobazie che servono a Sánchez per trattare con il leader catalano, che fa il dito medio. L’ipotesi di un nuovo voto

Le elezioni spagnole di domenica le hanno vinte quelli che le hanno perse. Le ha vinte il premier uscente, Pedro Sánchez, benché il suo Partito socialista abbia ottenuto meno seggi del Partito popolare di centrodestra. E le hanno vinte gli indipendentisti catalani che, nonostante la  brusca sconfitta nelle urne e il dimezzamento dei loro rappresentanti nel Parlamento nazionale, detengono però la chiave di ogni maggioranza aritmeticamente percorribile. Lo sconfitto delle elezioni spagnole, il premier uscente Pedro Sánchez, il cui Partito socialista ha ottenuto molti meno seggi del Partito popolare, ne è in realtà il trionfatore: la sua strepitosa rimonta rispetto ai sondaggi ha infatti sottratto al leader del Pp, Alberto Núñez Feijóo, i numeri necessari a formare un governo con l’appoggio dell’estrema destra di Vox, il partito alleato dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Per un soffio, il leader di Vox, Santiago Abascal, non è riuscito a trasformarsi anche lui in un perdente di successo: giusto qualche seggio in più e i suoi sovranisti, pur molto ridimensionati come numero di voti e di seggi, sarebbero stati determinanti come non mai. E, invece, niente. La stessa piroetta di Sánchez, ovvero vincere perdendo, è riuscita invece, e in modo ancora più acrobatico, agli indipendentisti catalani che hanno subito una débâcle complessiva (da 24 a 14 seggi in Parlamento), ma si sono ritrovati nelle mani il pezzo di puzzle mancante dell’unica possibile maggioranza. Più precisamente, il detentore del proiettile d’argento è Carles Puigdemont. Sì, proprio lui, l’uomo con la frangia che nel 2017 proclamò l’indipendenza catalana e che da allora, facendosi scudo dell’immunità di europarlamentare (poi revocata) e di protezioni giuridiche “straniere”, gira l’Europa per sfuggire ai mandati di cattura emessi dalla Giustizia spagnola per disubbidienza e malversazione aggravata – e cioè per l’organizzazione illegale del referendum di autodeterminazione.

  

Per gli indipendentisti, Puigdemont è un eroe. Per il centrodestra, che assiste attonito al suo ritrovato protagonismo, è un golpista. Pedro J. Ramírez, vecchia volpe del giornalismo conservatore, invocando una grande coalizione che sa essere impossibile, ha detto in tv: “La Spagna non deve dipendere dal ‘profugo di Waterloo’, da un delinquente che fugge dalla giustizia”. Eppure, i numeri dicono questo. Per avere la maggioranza occorrono 176 seggi. Se da un lato si sommano quelli dei popolari, di Vox, dell’Unión del pueblo navarro e di Coalición canaria si arriva a 171. Se dall’altro si sommano i deputati socialisti (122) a quelli della piattaforma della sinistra radicale Sumar (31) e a quelli dei partiti che hanno puntellato l’azione di governo negli ultimi anni – i 7 di Esquerra republicana (ovvero degli indipendentisti catalani guidati da Oriol Junqueras), i sei degli indipendentisti baschi di Bildu, i cinque del Partito nazionalista basco (che però stavolta fanno molto i preziosi) e quello del Bloque nacionalista galego – si arriva a 172. Ed ecco perché i 7 seggi di Junts, l’altro partito indipendentista catalano, quello guidato da Puigdemont, sono determinanti.

   

I portavoce di Junts fino a poche ore prima del voto, ignari della loro imminente centralità, dicevano che Sánchez non avrebbe mai potuto contare su di loro. E ieri hanno pronunciato solo due parole: “amnistia” e “autodeterminazione”. Che è come fare il dito medio. Tattica? Forse. Ma per Puigdemont e per i suoi, ormai trasformatisi da borghesi conservatori in descamisados a tempo pieno, fare la voce grossissima dell’indipendentismo irriducibile potrebbe essere troppo stuzzicante per rinunciarvi. Tanto più che, mentre quelli di Junts hanno perso solo uno dei loro 8 seggi, i loro rivali “interni” e cioè gli altri indipendentisti catalani, sono messi male: Esquerra è più morta che viva (da 13 a 7 seggi) e la Candidatura d’Unitat Popular è proprio morta (da 2 seggi a 0). Gli sherpa di Sumar sono già al lavoro. Ma la strada verso un accordo con Puigdemont è stretta e in salita. E avrebbe potuto provare a percorrerla perfino Feijóo, se fosse davvero quel genio del centrismo pragmatico che pensa di essere ma forse non è. Ai tempi di José María Aznar, i Pp e i catalanisti s’intendevano. Poi, certo, è cambiato tutto, ma è proprio dei leader tentare l’impossibile e portare indietro le lancette della storia. In ogni caso, l’alternativa a un accordo tra Sánchez e Puigdemont è la ripetizione del voto. A meno che Feijóo un po’ un genio lo sia. E che il Partito nazionalista basco sia in vena di funambolismi.