Dimitri Simes Foto LaPresse 

il personaggio

Chi è Dimitri Simes, il russo-americano che piace a Putin (e a Trump)

Matteo Muzio

Il capo del Cremlino ha scelto l'ex presidente del Center for the National Interest per moderare un incontro al Forum economico di San Pietroburgo. Un ritratto

L’accusa di essere filorussi da qualche tempo è tornata a essere moneta corrente nella politica americana e nel relativo dibattito sulle relazioni internazionali. L’hanno ricevuta sia politici come Donald Trump, che non ha mai nascosto la propria ammirazione personale per il presidente russo Vladimir Putin, sia alcuni accademici, come il politologo dell’Università di Chicago John J. Mearsheimer. Al netto di qualche sospetto nei confronti dei due personaggi appena citati, spesso però si tratta di un’accusa squisitamente politica. Nel caso dell’ex presidente del Center for the National Interest Dimitri Simes, l’accusa pare più fondata e con molteplici prove che dimostrano che il legame di Simes con il Cremlino sia alquanto solido. 

Al Forum economico di San Pietroburgo è Simes a moderare oggi da remoto il dibattito tra Vladimir Putin e il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune annunciato in via ufficiale dal portavoce della presidenza russa Dmitry Peskov. Il Forum, per quanto disertato da molti, è la vetrina internazionale del presidente russo, che ieri ha tenuto il suo consueto discorso lunghissimo in cui ha detto che l’economia russa è forte, che le aziende occidentali non sono le benvenute e che l’Ucraina non può vincere contro l’esercito russo. Se quindi per un’occasione così importante Putin ha scelto Simes, non è un caso.   

Simes ha un background che lo dovrebbe rendere tutt’altro che simpatetico nei confronti della pluriennale svolta autoritaria del Cremlino. Figlio di un’avvocatessa che difendeva dissidenti fino alla sua espulsione dall’Unione sovietica nel 1977, Simes è entrato negli Stati Uniti nel 1973 dopo aver protestato pubblicamente contro il coinvolgimento sovietico nella guerra del Vietnam. Una volta stabilitosi in America però, dopo un’uscita dall’Urss sospettosamente tranquilla, fatta con il consenso del dirigente del Kgb e futuro primo ministro russo Yeugeny Primakov, ha cominciato a chiedere maggiori aperture del paese verso la sua ex madrepatria, sposando pienamente il punto di vista realista. In parole povere: tutte le potenze sono uguali, comprese Unione sovietica e Stati Uniti e devono coesistere senza frizioni.  

A partire dalla metà degli anni Ottanta, Simes si avvicina all’entourage dell’ex presidente Richard Nixon, che in quel periodo stava cercando di riabilitarsi  agli occhi dell’opinione pubblica statunitense, passando da politico in disgrazia ad anziano e saggio statista. Anche nelle ultime interviste, infatti, Nixon chiedeva agli inquilini della Casa Bianca, prima George Bush senior e poi Bill Clinton, di essere indulgenti nei confronti di una Russia in trasformazione, senza eccedere con le critiche. Una posizione che si è poi consolidata con la fondazione del Nixon Center for Peace nel gennaio del 1994, a pochi mesi dalla sua morte. Il  presidente del centro era Dimitri Simes, le cui posizioni, col tempo, lo hanno fatto scontrare con la leadership repubblicana, nient’affatto tenera con le pulsioni autoritarie dell’ultimo Boris Yeltsin e del giovane Vladimir Putin. Fino a una rottura con la figlie di Nixon che avviene nel 2008, dopo alcuni comunicati stampa contro l’allora candidato repubblicano alla presidenza, John McCain, uno dei primi accusatori della Russia che in quei mesi aveva invaso la Georgia. Da allora il centro si chiama Center for the National Interest e alcuni si chiedono quale sia l’interesse statunitense nel riavvicinarsi in modo così sfacciato alla Russia. Non è dato sapersi. Quel che è certo, però, è il coinvolgimento di Simes nella piattaforma per le presidenziali 2016 di Donald Trump, dove il riavvicinamento con Putin per “combattere il terrorismo islamico” era tracciato chiaramente. Così come ci fu la sua mano nel discusso discorso di Helsinki durante il vertice con Putin il 16 luglio 2018, quello in cui Trump difese Putin dalle accuse di interferenza nelle elezioni presidenziali americane del 2016, contro la documentazione portata dall’Fbi a conoscenza del presidente. Motivo? “Mi fido di lui”, disse l’allora inquilino della Casa Bianca. 

Una domanda che si può elaborare anche oggi: quanto ci si può fidare delle pubblicazioni curate da Simes, unico americano a essere ospite fisso dei talk show del primo canale della televisione russa?