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La rinascita di Riad

Non solo il petrolio. Il New Deal saudita, dallo sport alla diplomazia

Francesco Petronella

Così Mohammed bin Salman ha approfittato della guerra di Vladimir Putin in Ucraina come un’ancora di salvezza per ritornare attivissima e centrale. Dal medio oriente fino a Washington, il nuovo ruolo della monarchia del Golfo

La guerra in Ucraina ha rappresentato per l’Arabia Saudita un’occasione unica. L’invasione russa ha permesso al regime di Riad di uscire dal cantuccio diplomatico, economico e di immagine in cui la monarchia del Golfo si era cacciata negli anni precedenti. All’alba del 2022, infatti, il regno arabo e il suo leader Mohammed bin Salman, il principe ereditario chiamato spesso Mbs, erano di fatto diventati dei paria per la comunità internazionale e, soprattutto, agli occhi degli interlocutori negli Stati Uniti e in Europa. Si trattava dell’onda lunga di una bufera culminata nel 2018 con l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, ammazzato e fatto a pezzi nel consolato saudita a Istanbul. Nel febbraio del 2021, il neoeletto presidente americano Joe Biden aveva reso pubblico un documento d’intelligence che attribuiva al regime di Riad, e a Mbs, la responsabilità per la morte del giornalista dissidente. Anche in Italia abbiamo respirato un po’ di quel clima ostile ai sauditi, quando poche settimane prima dell’invasione russa in Ucraina è emersa la questione dei rapporti con Riad dell’ex premier Matteo Renzi.

 

Con la guerra, tuttavia, è cambiato praticamente tutto. L’aumento dei prezzi dell’energia innescato dall’invasione russa ha spinto una schiera sempre più nutrita di leader occidentali a recarsi in Arabia Saudita per chiedere un aumento della produzione di petrolio, in modo da lenire i rincari. Uno dei primi a muoversi in questa direzione è stato l’allora primo ministro britannico Boris Johnson, seguito dallo stesso presidente statunitense Biden, che di fatto ha dovuto mandare rapidamente in soffitta rimbrotti e polemiche sul caso Khashoggi. Qualche mese dopo è stato il cancelliere tedesco Olaf Scholz a far visita alla corte saudita, puntando su Riad non solo come interlocutore chiave nella questione energetica, ma anche come sponda diplomatica per poter continuare a interagire con Mosca.

 

L’Arabia Saudita, per parte sua, ha puntualmente respinto le richieste occidentali di pompare più petrolio coordinandosi con il cartello Opec+, che Riad guida insieme alla Russia. L’ultima dimostrazione di forza in questo senso si è avuta a inizio giugno, quando l’Arabia Saudita ha annunciato un drastico taglio della produzione di greggio per il 2024, in accordo con i partner dell’Opec e con Mosca. In altri termini, da quando la Russia ha invaso l’Ucraina lo scorso anno, Riad ha usato il suo potere sul mercato dell’energia per mantenere elevati i prezzi del petrolio, facendo pagare lo scotto ai consumatori di Stati Uniti ed Europa. Per guadagnare ulteriormente, inoltre, Riad ha iniziato ad acquistare greggio e prodotti petroliferi a buon mercato dalla Russia, soprattutto diesel, per soddisfare il proprio fabbisogno domestico. Questa mossa ha permesso ai sauditi di reindirizzare le proprie produzioni verso l’export, realizzando margini di guadagno vertiginosi. Il presidente russo, Vladimir Putin, ha ottenuto una sponda importante per continuare a esportare prodotti energetici, anche se deprezzati, e reggere l’urto delle sanzioni occidentali. Allo stesso tempo Riad, il più grande esportatore mondiale di greggio, ha massicciamente beneficiato della guerra a livello finanziario. Il gigante petrolifero Saudi Aramco, a fine 2022, ha annunciato profitti record. In generale, dopo una straordinaria espansione del pil dell’8,7 per cento nel 2022, secondo le stime della Banca mondiale la crescita economica saudita dovrebbe essere almeno del 2,2 per cento nel 2023.

 

Come sottolinea un’analisi del Washington Post, tuttavia, nell’ultimo anno il governo di Riad non ha riposto i nuovi capitali “sotto il mattone”, come spesso si dice in Italia. La monarchia del Golfo, sotto la guida di Mbs e di altri esponenti di spicco dell’élite saudita, ha speso parte di questi “profitti di guerra” per il cosiddetto soft power, l’acquisizione cioè di asset e società in grado di aumentare l’influenza e l’appeal di Riad in occidente. Un caso emblematico, messo in risalto dallo stesso giornale americano, è il poderoso ingresso saudita nel mondo del golf, uno degli sport più lucrosi a livello mondiale. Il 6 giugno, infatti, Lil Golf e Pga Tour – i due circuiti di golf professionistico più importanti e prestigiosi del mondo – hanno annunciato che si uniranno in una sola entità, dopo un anno di bagarre giudiziaria. Per capire la portata dell’iniziativa bisogna ricordare che Liv golf è controllato dal Pif, il fondo sovrano saudita presieduto dal potente Yasir al Rumayyan, uomo di fiducia e amico personale di Mbs. Il circuito saudita, che ha aperto i battenti a giugno del 2022, ha insidiato per mesi il Pga, che riunisce i principali tornei statunitensi.

 

La stampa progressista d’oltreoceano critica l’iniziativa come l’ennesimo caso di sportwashing, cioè l’utilizzo di attività sportive per ricostruire l’immagine di regimi, quello saudita ma non solo, spesso criticati sul fronte dei diritti umani. In palio, però, c’è anche altro. Da un lato il tentativo di influenzare la politica americana, dall’altro una dimostrazione di forza e status finanziario anche nei confronti altri attori regionali, che nello sport hanno investito tanto (e meglio) rispetto a Riad. Il Qatar, per esempio, ha ospitato l’ultima edizione della Coppa del Mondo. Gli Emirati Arabi Uniti, invece, hanno incassato in pieno la vittoria della Champions League da parte del Manchester City, la cui società – in un sistema articolato – è nelle mani di Abu Dhabi per l’80 per cento. La compagnia aerea emiratina Etihad, fra le altre cose, è lo sponsor principale del club inglese e del suo stadio, ma vale la pena ricordare anche che il presidente emiratino Mohammed bin Zayed al Nahyan (Mbz) era tra le personalità nella tribuna vip durante la finale del 10 giugno allo stadio Ataturk di Istanbul. I sauditi, come già detto, sono molto indietro su questo fronte e per ora si limitano ad attirare con contratti favolosi vecchie glorie del calcio, come Cristiano Ronaldo, puntando però anche su sport – come il golf – particolarmente popolari e redditizi negli Stati Uniti.

 

Al di là del campo sportivo e finanziario, il rinnovato attivismo saudita durante la guerra si è concretizzato anche in ambito diplomatico. Nel settembre del 2022 Riad ha giocato il ruolo di mediatore nel rilascio di dieci combattenti stranieri detenuti in Ucraina, di cui due provenienti dagli Stati Uniti e cinque dal Regno Unito. L’operazione è avvenuta nell’ambito di un più ampio scambio di prigionieri di guerra. I dieci stranieri “salvati” dai sauditi – tra i quali anche altri provenienti da Marocco, Svezia e Croazia – sono sbarcati a Riad con un jet, per poi essere trasferiti nei rispettivi paesi d’origine. Messaggi di gratitudine all’Arabia Saudita sono immediatamente arrivati sia da Washington sia da Londra, le cui cancellerie hanno sottolineato con enfasi il coinvolgimento personale del principe ereditario Mbs. In generale, le cronache dell’ultimo anno descrivono il rampollo di casa Saud come più fiducioso verso il futuro, dopo aver inanellato una serie di insuccessi negli anni precedenti la guerra.

 

Basti pensare al pantano in Yemen, dal quale Riad potrebbe uscire grazie alla distensione dei rapporti con l’Iran. Lo scorso autunno, Biden aveva detto che ci sarebbero state “gravi conseguenze” per l’Arabia Saudita che aveva deciso di tagliare drasticamente la produzione di petrolio. In pubblico, il governo saudita ha difeso le proprie posizioni in maniera diplomatica, tramite dichiarazioni caute e circostanziate. Ma in privato, secondo documenti riservati ottenuti dal solito Washington Post, Mbs ha minacciato apertamente la parte americana di “alterare” la decennale relazione con Washington e di imporre costi economici significativi agli Stati Uniti in caso di ritorsioni per il taglio alla produzione di greggio. Un atteggiamento del genere verso Washington, attore egemone in medio oriente da mezzo secolo, non sarebbe stato concepibile prima della guerra in Ucraina, rivelatasi un’inaspettata ancora di salvezza per Riad.

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