L'atleta-soldato

Il legame tra sportivi russi e Forze armate rende scivolosa la scelta del Cio per le Olimpiadi

Micol Flammini

Gli atleti-soldati di Mosca e i Giochi olimpici di Parigi 2024 senza gli ucraini. Il rischio che  sport, soldi, propaganda e politica si confondano

Roma. Volodymyr Androshchuk era uno dei migliori decatleti dell’Ucraina. Aveva ventidue anni e la sua qualificazione per le Olimpiadi di Parigi del 2024 era quasi certa. Poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina, Androshchuk è andato a combattere ed è morto nel Donbas, vicino a Bakhmut, la città distrutta in cui i due eserciti tentano di sfinirsi a vicenda. Androshchuk è diventato un simbolo e la sua foto viene accostata ai cinque cerchi olimpici macchiati di sangue con cui oggi gli attivisti ucraini manifestano contro la decisione del Comitato olimpico internazionale di ammettere ai Giochi gli  atleti russi e bielorussi come neutrali. Anche la politica ha risposto a questa decisione e Kyiv ha stabilito  che non parteciperà alle competizioni di Parigi. 

 

Molti atleti sono al fronte, circa duecento sono stati uccisi, l’Ucraina  ritiene che queste storie siano inconciliabili con la partecipazione dei russi all’evento sportivo.  Secondo il Cio, “a nessun atleta dovrebbe essere impedito di gareggiare solo a causa del suo passaporto”. Il Comitato fa un appello ai diritti di tutti gli atleti a essere trattati senza discriminazione. Vietare i visti ai cittadini russi soltanto perché sono russi è una forte discriminazione, come lo è bandire la cultura russa, ma alle Olimpiadi c’è il rischio che  sport, soldi, propaganda e politica si confondano. Il Cio ha detto che verranno accettati soltanto gli atleti neutrali, una bandiera senza colori che comunque era stata già imposta a Mosca nelle competizioni precedenti. Gli atleti erano però riusciti a esprimere la loro appartenenza, ma adesso la promessa del Cio è  più complessa e si impegna a controllare che  chi arriverà alla competizione  non abbia sostenuto attivamente la guerra in Ucraina. La missione è scivolosa, anche perché, come avviene in molti altri paesi, Italia inclusa, gli atleti russi fanno spesso parte delle Forze armate e hanno ricevuto premi dal ministero della Difesa russo e dal Cremlino.

 

Il ginnasta Nikita Nagorny ha sfilato tra le armi dell’esercito nella Piazza Rossa, l’evento è pensato per far vedere al mondo la potenza e la pericolosità delle armi di Putin. Uno dei maggiori nuotatori russi, Evgeni Rylov, ha partecipato a un evento a favore della guerra. Altri sportivi, come l’hockeista Alexander Ovechkin, hanno sostenuto Putin apertamente nelle campagne elettorali. Gli atleti russi sono diventati strumenti della propaganda e ogni medaglia equivale ad aumenti di stipendi e a mostrine ed è difficile che siano loro a essere mandati al fronte. Partecipare a una parata è un compito, se il ministero della Difesa chiede a un atleta-soldato di presenziare a un evento a favore della guerra sarebbe un reato dire di no, e il Cio dovrà decidere quale strada scegliere: se considererà queste azioni come partecipazione all’invasione, dovrebbe impedire a tutti gli atleti-soldato di partecipare anche a “titolo individuale”. Ma saranno discriminati per il loro lavoro.  

 

I russi e i bielorussi che saranno ammessi avranno però l’occasione di usare i Giochi per manifestare il loro dissenso. Alle Olimpiadi di Tokyo del 2021, la Russia si chiamava Roc, la Bielorussia era ammessa con il suo nome e l’atleta di Minsk  Krystyna Timanovskaya divenne protagonista di una dissidenza pericolosa, partita da un fatto sportivo – non voleva essere iscritta a una gara per la quale si sentiva poco preparata – in un video denunciò i suoi allenatori, rischiò di essere ricondotta con la forza in Bielorussia, ma la polizia e il Cio riuscirono a impedirlo. La squadra olimpica di Minsk era arrivata a Tokyo con pochi atleti, molti erano finiti in carcere durante le proteste contro le elezioni truccate del 2020, altri avevano lasciato il paese. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.