Mosul, luglio 2017: civili iracheni in fuga nei pressi di una moschea distrutta durante il conflitto con lo Stato islamico (foto Felipe Dana/Ap) 

Viaggio nella ex capitale dello stato islamico a vent'anni dall'inizio della guerra in Iraq

Claudia Cavaliere

La luce è tornata a Mosul, dove si tirano su case senza dimenticare il terrore 

Decine di fedeli erano radunati per la preghiera all’interno della moschea di al Nuri a Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq dopo la capitale Baghdad. Si avvicinati alle porte alcuni uomini armati in divisa che nessuno aveva mai visto prima. Poco dopo è entrato un uomo con un abito largo nero, ha salito i gradini che portavano al pulpito, e molti hanno pensato si trattasse dell’imam venuto per il sermone di quel venerdì, il 4 luglio del 2014. Mohammad che quel giorno era presente: oggi beve il tè mentre siamo seduti ai tavolini esterni di un locale di fronte a quella che era l’entrata della moschea. L’uomo col vestito largo e nero era Abu Bakr al Baghdadi. Da lì, il luogo sacro per i musulmani sunniti, annunciò l’instaurazione del califfato: lo Stato islamico era entrato nella città. “Dio ha concesso ai vostri fratelli, i mujahidin, la vittoria e la conquista dopo anni di pazienza e di lotta santa, e ha permesso loro di raggiungere l’obiettivo – disse – Si sono affrettati a dichiarare un califfato islamico e a nominare un imam: io sono stato investito di questa fiducia, sono stato incaricato di occuparmi di voi, anche se non sono il migliore o il più bravo: quindi se mi vedete nel giusto, aiutatemi, e se mi vedete nell’errore, consigliatemi e mettetemi a posto”.

 
Poi uscì dalla moschea scortato dai suoi seguaci: l’occupazione di Mosul era cominciata, la musica si spense e le strade iniziarono a svuotarsi. 

  
Erano passati undici anni dall’invasione dell’Iraq da parte della coalizione occidentale che voleva cambiare il regime di Saddam Hussein. Undici anni di guerra e stravolgimenti, di brutalità di al Qaeda e di faticosa ricomposizione di una società sfasciata dal regime e dal terrorismo. Qui a Mosul, undici anni prima – pochi mesi dopo l’invasione di cui ricorre il ventennale in questi giorni – le forze americane avevano ucciso il figlio maggiore di Saddam, Uday Hussein, considerato il successore più probabile del padre, famoso per il suo sadismo e le sue torture. 


Oggi della moschea di al Nuri, di quei gradini in marmo e del pulpito a cui tutti guardavano, del minareto pendente di al Hadba e di gran parte della città vecchia – quella sulla sponda occidentale del fiume Tigri che divide in due la città – restano i lavori di ricostruzione, espressione dell’enorme sforzo internazionale per la ripartenza, ma soprattutto esempio del cuore e della solidarietà degli abitanti di Mosul che per primi hanno cercato di ritrovare lo spirito di questa città che per le sue tradizioni, i suoi colori e il suo essere crocevia di popoli, era stata per decenni il luogo della convivenza tra diverse confessioni religiose. Qui ora tutti dicono: la città deve essere trattata come qualcosa di totalmente nuovo, una primavera, come se nascesse daccapo. 


“Quando i combattenti dello Stato islamico sono arrivati, hanno provato in ogni modo a dimostrare di essere dei mostri. Hanno lasciato che la città si trasformasse in un inferno ed è stato così anche durante i mesi della battaglia per la liberazione. Loro non l’hanno mai voluta abbandonare, hanno fatto in modo che gli scontri fossero feroci, che la maggior parte della città venisse distrutta, non se ne andavano perché volevano vederla rasa al suolo. E’ stato così anche per il complesso di al Nuri. Quella non è mai stata vita: vita è libertà di poter scegliere, Mosul nei tre anni di occupazione è stata una prigione, è stata l’oscurità più buia”, dice Ali al Baroodi, un professore di inglese dell’università di Mosul, che non ha mai lasciato la città. Camminare per queste strade è una costante altalena tra passato e presente, tra la morte crudele e sfacciata di pochi anni fa e i rumori della vita quotidiana, ordinaria, di oggi: ogni angolo racconta ciò che gli ultimi otto anni sono stati per questo luogo, gli edifici in macerie della città vecchia si intervallano a quelli ricostruiti, ci sono strade in cui sono i locali inferiori a essere stati rifatti per cominciare a ridare ritmo alla vita, e il resto sa invariabilmente di guerra. Questo edificio è stato salvato? La risposta è sempre: “Questo è stato ricostruito”. 
Najim al Jubouri è il governatore della provincia di Ninive, prima era il comandante delle forze di sicurezza che l’hanno liberata dallo Stato islamico nel 2017. Nel suo grande ufficio ci sono le fotografie di quei giorni, lui le indica con orgoglio mentre ricorda che le ragioni che hanno portato alla caduta della città sono diversi e in gran parte legati alle enormi spaccature tra le persone e gli apparati di sicurezza. “Abbiamo impiegato anni a risanare queste fratture, abbiamo lavorato insieme giorno per giorno partendo dalle piccole cose: ora si può lavorare e vivere, adesso che l’area è in sicurezza possiamo davvero ricostruire”. 


Nell’Iraq federale i livelli di sicurezza sono diversi rispetto a quelli del Kurdistan e a Mosul sono ancora altri e la rendono più sicura di un tempo: prima di entrare nella città da Erbil – la capitale del Kurdistan iracheno – occorre attraversare alcuni checkpoint: davanti ad alcuni di questi si vedono i manifesti della propaganda iraniana e delle milizie pro Iran del Quadro di Coordinamento, con i volti del generale iraniano Qasem Suleimani e Abu Mahdial Muhandis, morti nel blitz a Baghdad del 2020 deciso dall’Amministrazione Trump. L’ultimo checkpoint prima di entrare a Mosul è quello della polizia locale, dopo il quale non si vedono altre bandiere sventolare se non quella irachena e non ci sono gigantografie se non quelle dei volti, come quello del governatore, che i cittadini considerano i loro esempi e i loro rappresentanti. Ci sono diversi livelli di sicurezza e varie forze – più o meno ufficiali – sono coinvolte nel mantenere l’area sicura, dalla polizia, alle Unità di Mobilitazione Popolare irachene, all’esercito, ai peshmerga, mentre i combattenti dello Stato Islamico si nascondono sulle montagne o nelle zone di confine - fanno ancora paura. 


Quando lo Stato islamico è arrivato a Mosul, non ha solo imposto le proprie regole a cui tutti erano tenuti a obbedire per non essere ammazzati, ma ha anche fatto a pezzi il tessuto sociale della città, soggiogando e sterminando le minoranze, costringendo milioni di cittadini all’esodo e quelli che erano rimasti a vedersi usati come scudi umani. “Non c’era più niente quando la città è stata liberata, il nostro ritrovo – ristorante, bar, scuola – è stata la prima cosa a cui abbiamo cominciato a lavorare noi giovani subito dopo la liberazione. Lo consideriamo il respiro del quartiere ed è stata la spinta per le altre persone a tornare, per rimettere in movimento la città, per riprendersi le proprie tradizioni”, racconta Saqar al Zakaria, un attivista iracheno. Dopo sono arrivate le gare internazionali, la visita del Papa, la possibilità di nuovi lavori per gli abitanti legati proprio alle iniziative di ricostruzione: il fatto che negli ultimi anni l’attenzione del mondo si sia posata su un pezzo di storia della città è un modo per renderla ancora più aperta al mondo.


 Il mercato di Mosul è nella città vecchia, è una delle aree ricostruite ed è pieno di vita: c’è il carrello del caffè più buono della città, ci sono le botteghe dei fabbri e si chiude con il banco del pesce. Si potrebbe percorrere a occhi chiusi quello stretto corridoio e trovare la via d’uscita alla strada lasciandosi guidare dai suoni e dagli odori. All’ingresso scuro si sente il ticchettio dei martelli che battono sulle incudini e si richiamano di bottega in bottega, le une di fronte alle altre, mentre i falegnami lavorano il legno con tornio e scalpello. Lasciate alle spalle le attività pratiche, il mercato si colora di spezie provenienti da ogni parte del medio oriente. Voltato l’angolo, di fronte al suo negozio ereditato da quello di pelli del padre e in cui ha lavorato sin da piccolo c’è Dhia al Saraj. E’ un uomo distinto e mite, racconta del ragazzino che era, parla di Mosul: nella dolcezza dei suoi occhi e del suo sorriso e nell’insistenza con cui ripete di essere una brava persona c’è l’affanno di chi vuole far vedere, sentire e vivere la città che non è mai stata dello Stato islamico. Ciò che è accaduto a Mosul non è quello che la città è, una città che ha avuto paura, che ha visto scendere l’oscurità, che è rimasta isolata e devastata per tre anni senza nessuna via d’uscita. Chi è sopravvissuto sente il dovere di giustificarsi per qualcosa che non ha commesso, ma che ha subìto lui per primo: questa è ancora una violenza e rivela che c’è qualcosa di inesatto nel modo in cui ciò che è accaduto è stato raccontato. “Questo avviene perché la percezione all’interno dell’Iraq e nel mondo è stata di Mosul come la città che ha accolto lo Stato islamico, la città irachena sponsor del terrorismo. Ma se lo avessimo voluto, perché avremmo passato tre anni a voler scomparire, perché avremmo avuto bisogno di rifiutare quelle regole, perché avremmo sentito il bisogno di combattere e poi di riconnetterci con il mondo esterno? Dopo la liberazione abbiamo cominciato a capire cosa fosse la libertà e quanto fosse importante la nostra identità. Dopo quel giorno ho ripreso a suonare ed è stato il miglior modo di vendicarmi per quello che ci avevano fatto vivere”, dice col sorriso Khalid al Rawi, un suonatore di oud a Mosul.  


Durante il regime di Saddam, Mosul era considerata la città più bella d’Iraq, pare ancora di vederlo, quello splendore, tra le macerie. La promessa di democrazia e di libertà – di una vita migliore – che si è sparsa dopo l’invasione occidentale del 2003 si è schiantata contro una quotidianità misera e avvilente, ancora e sempre terrorizzante. Il sistema politico oggi è ancora corrotto, anche se migliore rispetto al passato, ma nelle conversazioni e negli sguardi si sente che rimane la consapevolezza del tradimento di quella promessa. Per descrivere Mosul oggi però ci sono alcune parole che si può non usare: terrorismo, distruzione, mancanza di libertà, rapimenti, uccisioni, oscurità. La storia che si pianta davanti agli occhi e che rimane addosso, con il suo sapore speciale perché qui per tanto tempo e fino a non troppo tempo fa vigeva la regola della morte, parla di forza, pazienza e fiducia, della volontà tenace di guardarsi intorno e capire da dove ricominciare, del poter camminare per le strade di Mosul senza paura e potersi dire: siamo al sicuro. Ci sono certamente dei cortocircuiti che restano: la scarsa partecipazione del governo centrale nelle vite dei cittadini, la corruzione dilagante e le persone che sei anni dopo la liberazione dallo Stato islamico vivono ancora nei campi per gli sfollati. Molti di questi sono stati chiusi, ma le città non sono state preparate a riaccogliere i suoi cittadini oppure gli abitanti di oggi non li vogliono perché affiliati o considerati affiliati dello Stato Islamico. Sei anni dopo la liberazione, le persone sono nei campi, la situazione in Sinjar è complicata e gli yazidi non possono tornare a casa. Nel 2015, l’Isis fece sapere di aver ucciso 2.700 persone in un giorno: quante ne sono state uccise in tre anni? L’opinione di chi è rimasto deve essere tenuta presente, ma qual è il destino di chi vive da sfollato? Rimangono nello stesso ambiente, senza cambiare nulla, crescendo nella radicalizzazione, nello stesso contesto ostile che è il motivo per cui nessuno vuole riaccoglierli. Ma rimandare la soluzione potrebbe condurre a qualcosa di molto più preoccupante nel futuro. Si pensa che concludere una guerra sia l’ultima cosa da fare, che una volta liberati i cittadini si sia risolto tutto, ma quello che viene dopo è serio quanto la guerra, e va gestito. “La dignità delle persone è la linea rossa, non la può toccare nessuno e quel conflitto invece è stato atroce. Io sono iracheno, sono un militare, amo la mia gente e ho imparato a farmi amare in questi anni. Penso che la chiave di tutto sia l’amore, con quello sì puoi cambiare tutto. Sono onesto con la mia gente e le persone lo sentono. Dopo questi anni a lavorare insieme, non sono più un estraneo e cerco di dare un buon esempio”, dice al Jubouri. Ricostruire non è cancellare e ripartire, è ricordare, è armarsi di visione per il futuro. E’ riportare lo splendore di quello che è stato, di riprendersi le cose belle, quelle che vale la pena salvare senza lasciare indietro quello che è andato distrutto. Ricostruire significa avere cura, la stessa che gli abitanti di Mosul stanno mettendo nelle piccole cose da sei anni. In tutta questa confusione e incertezza, tra i rumori vitali del mercato e i ricordi neri dei propri morti, mentre si costruisce giorno per giorno la memoria e la speranza assieme, Mosul è di nuovo la luce.
 

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