Eredità di guerra

Vent'anni di “lezione irachena” misurati sull'America, ora che c'è da difendere l'Ucraina

Paola Peduzzi

Una lezione dell’invasione dell’Iraq contro il regime di Saddam Hussein ancora attualissima: stancarsi di combattere una guerra contro i dispotismi senza averla vinta è pericoloso. Come è cambiato il ruolo degli Stati Uniti nel mondo

Milano. “Se mi avessi chiamato vent’anni fa, sarei stato uno dei più vigorosi sostenitori dell’intervento americano in Afghanistan e in Iraq”, ha detto al Washington Post Kevin Roberts, il presidente dell’Heritage Foundation, storico centro studi  di ispirazione reaganiana: “Ma la lezione è stata che i conservatori americani hanno detto: ‘Oddio, non possiamo continuare a essere invischiati in qualcosa che assomiglia o sa di nation building’. E detto con franchezza, è questo che l’Ucraina inizia a sembrare”. A vent’anni dall’invasione dell’Iraq contro il regime di Saddam Hussein – il 19 marzo del 2003 – e nel mezzo dell’invasione di Vladimir Putin dell’Ucraina democratica, le parole di Roberts e la trasformazione dell’Heritage Foundation fotografano con esattezza come è cambiata, nel Partito repubblicano, l’interpretazione del ruolo che l’America deve avere nel mondo. E’ cambiata anche nel Partito democratico naturalmente. 

 

Con la fine della presidenza di George W. Bush, l’America ha interiorizzato la cosiddetta “lezione irachena” come un enorme senso di colpa da emendare ritirandosi e intervenendo sempre meno nelle crisi internazionali. Barack Obama, presidente democratico, introdusse l’idea del “leading from behind” che si esplicitò con una grande cautela nei confronti dell’Onda verde antiregime in Iran, delle primavere arabe in medio oriente e soprattutto della Siria. Donald Trump ha levato il senso di colpa da questo progressivo ritiro americano – che è da intendere in senso ampio, non solo militare – e l’ha sostituito con l’“America first”: le esigenze del popolo americano vengono prima, disse, spezzando irrimediabilmente il legame che era stato costruito tra la sicurezza internazionale e la sicurezza americana, tra l’interesse globale (delle democrazie) e quello americano. Alle primarie repubblicane del 2016, durante un dibattito tra i candidati prima del voto in Carolina del sud, Trump, che pure aveva in passato sostenuto la guerra in Iraq, la definì “un errore bello grosso”. Jeb Bush, sul palco con lui, difese l’operato di suo fratello ex presidente dicendo che aveva “costruito un apparato di sicurezza che ci ha tenuti al sicuro e sono fiero di ciò che ha fatto”. Trump gli rispose: “Il World Trade Center è venuto giù durante il mandato di tuo fratello, ricordatelo. Questo non è tenerci al sicuro”. Il pubblico lo fischiò, i commentatori dissero che Trump si era giocato la candidatura, una settimana dopo Trump vinse a mani basse. Nei suoi quattro anni alla Casa Bianca poi l’ex presidente non ha soltanto imposto l’isolazionismo (con qualche rara eccezione) ma ha anche ridisegnato le alleanze, dando più credito alla Russia di Putin che all’Europa degli alleati storici (su come ha trattato l’Ucraina poi, ci vorrebbe un trattato a parte). 

 

Di nuovo, pur con le alleanze riaggiustate da un gigantesco “America is back” scandito da Joe Biden all’Europa, la “lezione irachena” continuava a essere la stessa. Quando ha deciso il ritiro (sciagurato) delle truppe americane dall’Afghanistan, nell’agosto del 2021, l’attuale presidente americano ha detto: “Questa decisione sull’Afghanistan non riguarda soltanto l’Afghanistan.  Pone fine a una stagione di operazioni militari per rimodellare paesi stranieri”, il nation building appunto. Ma di lì a pochi mesi, con la seconda invasione russa dell’Ucraina (la prima nel 2014 era stata di fatto accettata dall’America), Biden avrebbe cambiato di nuovo tutto, cucendo insieme una solida coalizione di paesi democratici in difesa dell’Ucraina democratica: con questo interventismo, l’America è tornata a essere il paese guida dell’occidente disposto a tutto – whatever it takes – per difendere i suoi valori. 

 

Il Partito repubblicano, che pure ha rieletto il Bush che aveva destituito Saddam Hussein in Iraq, oggi non riconosce invece la necessità di difendere l’Ucraina. O meglio: è molto diviso, alcuni parlano di un’altra guerra civile dentro ai conservatori, cosa che è diventata una costante negli anni di Trump e che si è però finora risolta adeguandosi a quel che vuole o sostiene Trump. L’Heritage Foundation scrive e argomenta contro i pacchetti d’aiuto a Kyiv e il suo presidente Roberts ha anche detto che è arrivato il momento per l’America di dichiarare la sua “indipendenza” dall’ordine globale liberale. Trump applaude, uno dei candidati possibili per il 2024 Ron DeSantis, governatore della Florida, dice che la difesa dell’Ucraina non è un interesse nazionale. Un’altra buona parte del partito continua a essere a favore del sostegno a Kyiv: il trumpismo antiucraino non è maggioranza tra i repubblicani, non ancora. Le rilevazioni mostrano che il sostegno popolare, soprattutto tra i conservatori, all’Ucraina si sfilaccia con il tempo. C’è una lezione della guerra irachena non mainstream ma attualissima: stancarsi di combattere una guerra contro i dispotismi senza averla vinta è pericoloso. 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi