Qui a Kyiv nulla è normale

Tutti i colori dell'Ucraina unita, dove il rischio è anche fingere che la guerra sia abitudine

Micol Flammini

Il grande errore di chiamare “normalità” la voglia di vivere nonostante tutto. Il nuovo lessico, la fatica, gli eroi. Il racconto di una capitale stravolta ed eccezionale insieme alla nostra persona dell’anno, Anastasia Blyshchyk

Kyiv, dalla nostra inviata. Kyiv si prende il suo tempo. Il tempo di ricordare i suoi militari, non soltanto chi è morto nell’ultimo anno, ma anche chi si è distinto ed è ancora vivo. Gli eroi sono tutti,  nel 24 febbraio di un anno dopo,  la capitale commemora la morte e celebra la vita. Ricorda e guarda avanti, e i nomi  risuonano per la strada che collega  la cattedrale di Santa Sofia al monastero di San Michele. La capitale non ha intenzione di vivere questa giornata come una qualunque, è un anno che non esistono più giorni qualunque. Ognuno è eccezionale, doloroso. Il grado di spavento varia a seconda delle sirene, è vero che ormai gli abitanti della capitale si sono abituati a sentirle e hanno il loro codice di comportamento – sanno quando scendere nei rifugi, quanto rimanerci, cosa portare – ma sanno anche che nulla di tutto ciò è normale. Si sentono  e sono Europa, ma questa Europa ha l’elmetto in testa e la notte dorme male, quando è in un posto controlla dove si trova il rifugio più vicino, non può pianificare troppi viaggi, sa che è difficile fare progetti, sa che il tempo si è fermato e per mandarlo avanti bisogna spingerlo a mano: un ragazzo fortemente miope mi ha raccontato che è atteso in Polonia per una borsa di studio, aveva fatto domanda prima dell’invasione, è stato accettato, ma non può ancora uscire  dal paese.

 

Nello stesso tempo sa che con i suoi problemi alla vista sarebbe inutile nell’esercito.  L’unica opzione che ha è aspettare: un permesso del ministero dell’Istruzione, la fine della guerra, un’operazione agli occhi. Nell’attesa, conta i suoi ultimi 365 giorni di anormalità imposta in cui tutto è cambiato, anche la lingua. Gli ucraini hanno il loro modo per riferirsi agli eventi e alle azioni. Nessuno dice: “quando finirà la guerra”. E’ una frase poco corretta, tutti preferiscono: “quando avremo vinto”. E’ così che finirà il conflitto, con la vittoria dell’Ucraina e di tutti i suoi abitanti. Nessuno dice: “sminare”. E’ percepito come un verbo vago, meglio: “derussizzare”. Aiuta a descrivere con precisione  chi le ha messe quelle mine, da dove sono venute, quali erano le intenzioni.  Il 24 febbraio di un anno dopo è una brutta giornata, non una giornata come tante, più brutta e bisogna dirlo, raccontarlo: vince chi ricorda e i russi sono un popolo smemorato, non conosce la sua stessa storia, che tanto li ossessiona. C’è meno traffico per le strade, forse è una precauzione, gli ucraini conoscono la passione di Mosca per le ricorrenze e temono un attacco per marcare l’anno di guerra, nonostante questo  alcune donne girano per il centro, mettono dei nastrini di lutto attorno alle bandiere ucraine appese ovunque, portano dei fiori davanti alle foto dei militari uccisi e posano per i fotografi: anche questo brulichio di media è anormale, anche essere fotografati mentre si posa un fiore per i defunti è anormale, anche mettersi in posa lo è. L’Ucraina è cambiata, si sente più unita, più forte, si sente invincibile – “la vittoria sarà nostra”, ha detto ieri il presidente Volodymyr Zelensky – ma si sente anche stanca. Il rischio è confondere i negozi aperti, i rider con la sacca di Glovo, i sushi bar, i concerti, per normalità: questo è lo sforzo di Kyiv per sentirsi viva, per combattere, per non fermarsi. Dietro c’è il dolore, la sopravvivenza nonostante tutto.

 

Anastasia Blyshchyk un anno fa non aveva dubbi che l’invasione ci sarebbe stata, lavorava come giornalista e aveva anche cercato di dare informazioni su come comportarsi in caso di invasione. Era pronta, ha avuto paura, non era sorpresa ma non immaginava quanto potesse cambiare la sua vita. E’ bella, vestita di verde militare, si sente sollevata di essere a Kyiv. “Pochi giorni prima dell’attacco, il mio fidanzato mi aveva chiamato per dirmi che ci avrebbero invasi  e che soprattutto la mia Kherson sarebbe stata a rischio. Ero pronta, non capisco come mai la maggior parte degli ucraini non lo fosse”, dice al Foglio, che l’ha  nominata persona dell’anno del 2022. Ha il volto tranquillo come l’Ucraina, come Kyiv. Lo sguardo dolce, i modi gentili. Quanto inganna questa facciata di normalità che unisce tutti gli ucraini dalla vita sottosopra. Il 4 maggio, Anastasia ha ricevuto una telefonata. La informavano che il suo fidanzato, Oleksandr Makhov, soldato e corrispondente di guerra, era stato ucciso. “Mi piaceva fare dei piani, immaginarmi un futuro. Un tempo lo facevo spesso. Poi è stato tutto rovinato. Ora ho altre speranze, altre priorità: spero di tornare viva ogni volta che vado al fronte, di non perdere un arto. La situazione è terribile, all’Ucraina spetta una lunga strada fino alla vittoria. Ci saranno ancora molte perdite, destini rotti. La vittoria non sarà tra un mese e forse nemmeno tra un anno, ma non ci arrendiamo. Sarebbe disonesto nei confronti di quegli eroi che hanno pagato con la vita e che ora non hanno più nulla”.

 

All’anulare ha ancora l’anello di fidanzamento di una promessa che non si realizzerà. La proposta di matrimonio era arrivata dal fronte, in diretta, ora quel brillantino sulle sue mani brune si è trasformato in un altro genere di promessa fatta al suo fidanzato e all’Ucraina: vinceremo. Anastasia è paziente e sarebbe ingiusto scambiare la sua pazienza per calma, come è ingiusto scambiare i negozi aperti per la normalità di Kyiv. Ha fatto del suo dolore un piano, la battaglia della sua vita. Ha lasciato la televisione per la quale lavora, si è messa una fascia al braccio con la scritta “E’ ora di armare le donne” e ha deciso di andare al fronte. Ora è la portavoce della brigata  numero 47, non può rivelare dove è dislocata, lei  cura le comunicazioni per la stampa,  quell’equilibrio delicato tra sicurezza e informazione. L’altra sua attività è dedicata alle donne, alla loro partecipazione alla guerra: “Sono tante le ragazze al fronte, anche se non è semplice. Né essere accettate né relazionarsi con i compagni d’armi: devi mettere un confine e fare attenzione. C’è poca sensibilità  per le soldatesse, da poco sono state introdotte uniformi adatte, scarpe con numeri che può calzare una donna, kit igienici. Ma una volta al fronte le donne sono fondamentali, anche perché sono in grado di dare un sostegno che nessun uomo può dare”. 

 

Il ritratto di questa Ucraina unita è la prima sconfitta della Russia, voleva frammentarla, voleva che l’est si separasse dall’ovest, che la lingua, l’utilizzo del russo, diventasse in questa guerra una dichiarazione di fedeltà nei confronti del Cremlino. Così non è stato, molti ucraini hanno deciso di non utilizzare più il russo e chi continua a usarlo lo fa senza pagare tributi di amore a Mosca, lo usa come abitudine, come lingua familiare, senza per questo sentirsi russo. La guerra ha cucito insieme le anime dell’Ucraina, una nazione corale, con più voci, più facce, più origini e una sola, sentitissima, nazionalità: ucraina.  Anastasia prima del 2014 era abituata a parlare in russo, poi ha deciso di utilizzare soltanto l’ucraino. “Allora molte persone mi prendevano in giro, pensavano fosse una scelta insensata. Nel 2022, le stesse persone mi hanno chiamata  per dirmi che avevano capito le ragioni del mio cambiamento, anche loro parlavano in ucraino, mi hanno detto che si rifiutavano di utilizzare la lingua dei terroristi, degli assassini, dei ladri, degli stupratori”. La lingua è un segno di riconoscimento, di appartenenza e in questa guerra anche di distanza. Anastasia si guarda poco indietro e ancora meno davanti, sembra stringere tra le mani forti il presente e nel parlare della giornata che ha stravolto l’Ucraina e il mondo, quel 24 febbraio, e della sua ricorrenza, usa un gioco di parole: “Quello che è successo ci impone di pensare alla vittoria, l’importante è che facciamo in modo che sia un 24 luty e non fevral’”. Luty è il nome ucraino di febbraio, fevral’ è quello russo e chiamarlo come lo chiama Mosca vorrebbe dire ammettere che cambiare il corso della storia è una prerogativa della Russia. Il Cremlino ha iniziato a martoriare l’Ucraina, ma ora l’Ucraina sa  di poter decidere da che parte vuole andare: a occidente.

 

“Gli ucraini si sono uniti perché non vogliono essere schiavi, non sopportano di vivere sotto la sorveglianza o nella paura”. Anastasia solleva un tema tormentato: “Certo, poi ci sono i traditori. Quelli che aspettano i soldati russi, ma non è questo il loro posto e sono pronta a offrire loro un viaggio lontano dai nostri confini”. Nel vocabolario ucraino, la bandiera russa si chiama “tricolore”, e dove sventola indica schiavitù. “Faccio l’esempio della mia regione, Kherson. Il lato sinistro è ancora occupato e lì la Russia ha spostato il tempo di trent’anni indietro. Ha portato i suoi prodotti, il suo cibo, prezzi alti e stipendi bassi. La gente abituata a parlare liberamente ora non può più farlo. Per i russi quel mondo vecchio è normale. I soldati russi sono arrivati a casa di mia zia e quando hanno visto che aveva il bagno dentro e non in cortile  hanno sbarrato gli occhi. Per loro era un lusso, sintomo di un tenore di vita altissimo. Ci sono persone che vorrebbero al mondo dei bagni in cortile, non è certo il caso di mia zia che non è una traditrice e aspetta l’arrivo degli ucraini, ma ho visto un mio amico di infanzia scendere in strada con il tricolore in mano”. Cosa spinga a tradire è difficile da capire, per Anastasia non è una questione generazionale, per qualcuno sarà anche nostalgia, è questione di cultura, di esperienze: “Credo che chi attendeva l’arrivo della Russia non ha mai viaggiato, non ha visto come si vive nei paesi dell’Unione europea, è stato rintanato in casa a subire la propaganda che arrivava da Mosca”.

 

Poi, racconta Anastasia, c’è chi tende a guardare poco a quello che accade al fronte, che si sente lontano, messo in salvo, che ascolta troppo i media locali che dicono che i soldati hanno tutto sotto controllo: “Certo che hanno tutto sotto controllo, ma bisogna anche ricordare quale prezzo stanno pagando, bisogna che tutti tengano a mente che in qualsiasi momento, anche ora, qualcuno sta ricevendo una telefonata che porta notizie terribili. Quando incontro alcuni uomini che non sono al fronte mi sento dire che il loro contributo è nella vita civile. Lo capisco ed è importante, ma poi domando: e come state contribuendo? E mi sento rispondere: reggiamo l’economia. Insisto: quando è stata l’ultima volta che avete  fatto una donazione alle Forze armate? E loro rispondono: qualche mese fa. Questo è soltanto un esempio per dire che non tutti si rendono conto che al fronte si muore. C’è chi non vuole leggere le cattive notizie per non rattristarsi, ma per ogni controffensiva ci sono soldati che muoiono. Per ogni buona notizia, ce ne può essere una cattiva”. La divisione non è geografica: “Dipende dalle persone”. 

 

Per Anastasia è importante vedere il dolore e la stanchezza, mostrare il volto di un paese stravolto e non nascondere il prezzo  dell’eroismo, la lunghezza di questa guerra, si finirebbe per scambiare tutto per normalità. Non c’è nulla di normale a Kyiv, né il dolore né “la resistenza su vasta scala”, come viene chiamata,  né l’ironia dissacratoria verso un nemico tanto ostinato da comportarsi da idiota: un idiota molto pericoloso. Come dice Anastasia, l’Ucraina è unita, ed è unita con tutte le sue sfumature, è polifonica, è umana e fa uno sforzo immane per non perdere slancio e poter continuare a scegliere il proprio futuro.  I ristoranti Musafir di Kyiv sono tre, si trovano in parti centrali della capitale e sono particolarmente caotici. E’ il clamore della cultura tatara, qui si mangia tataro, chi ci lavora arriva soprattutto dalla Crimea e gli avventori vengono per due ragioni: il cibo è delizioso e per sostenere i connazionali tormentati dalla Russia. Nessuno quanto loro, i tatari, sa bene cosa porti l’occupazione russa, non c’è generazione nelle loro famiglie che non l’abbia sperimentata. Dal più vecchio al più giovane, i vivi e i morti. Chiedete ai tatari per sapere che effetto fa il ritorno di Mosca con il fucile in mano, chiedete loro anche cosa vuol dire quando il Cremlino pretende di farti sentire scomodo, indesiderato, schiavo a casa tua. Gli anni di guerre, torture, deportazioni e fughe, i tatari ce li hanno appuntati tutti addosso. Si sono sempre rialzati e il 24 febbraio 2022 chi di loro aveva già lasciato la Crimea nel 2014 ha subìto una seconda invasione.

 

I tatari sono uno dei volti dell’Ucraina, uno dei colori che dipingono la nazione. Alla scrittrice e storica, Olena Styazhkina, Musafir è un posto che piace molto, le piace la storia dei tatari, le piace la storia dell’Ucraina. Come Anastasia viene dall’est, da Donetsk. Se ne è andata dopo l’inizio della guerra del 2014 e mentre fuggiva verso Kyiv si chiedeva cosa l’avrebbe fatta sentire a casa, cosa, nel caso in cui avesse perso i sensi, le avrebbe segnalato che era tra persone che di cui poteva fidarsi. C’era una sola risposta: la lingua, l’ucraino. Ha iniziato un processo su se stessa, rendendosi conto che, come molte persone cresciute usando il russo, era poco abituata a parlare in ucraino di sentimenti, di cose intime. Conosceva perfettamente la lingua, doveva semplicemente avvicinarla a se stessa. “Una volta una mia amica mi ha chiamato dicendomi: congratulati con me, ho fatto l’amore in ucraino! Sai quanti anni ha?, quasi cinquanta”. All’inizio della guerra Olena Styazhkina aveva iniziato a tenere un diario, tradotto in italiano nel volume “Dimensione Kyiv”, annotava la rabbia, le ferite, i cambiamenti. Ha raccontato una città che iniziava a dover fronteggiare la necessità della sopravvivenza. E la fronteggia ancora: “E’ cambiato l’ordine delle priorità e anche il concetto di fortuna ha un altro senso. Per esempio è una fortuna avere una casa con le pareti resistenti che ti proteggono durante i bombardamenti”. E’ stato l’anno più lungo e l’anno più breve per molti ucraini, è stato un anno vissuto troppo o non vissuto, è stato l’anno di infinite prime volte, di troppe lontananze, di lunghi elenchi di nomi che hanno composto una sola Ucraina. “Immagina la patria, che forma le dai? – mi ha chiesto Olena Styazhkina – Una nonna? una madre? Per noi è un bambino, ha bisogno di protezione. Siamo pronti a tutto pur di mettere il nostro comune bambino in salvo”.  Per uno, due, tre anni, o quanti ce ne vorranno, di umanissima anormalità. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.