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libertarismo all'americana

I repubblicani alle prese con gli spasmi del post trumpismo

Matteo Muzio

Dove porterà la nuova fase dell’impegno politico del miliardario Charles Koch? Le ansie e le paure del Gop

Nei giorni scorsi c’è stato a Palm Springs, in Florida, un meeting invernale del comitato d’azione politica conservatore American for Prosperity. Alla fine della conferenza la presidente Emily Seidel ha diramato un memo dove si tirano le somme sulle midterm: in sintesi, si dice che molti candidati dalle idee bizzarre sono stati respinti dagli elettori americani. Questo, quindi, ha portato i democratici a godere di un insperato consenso. Entrambi gli schieramenti, però, stanno spingendosi verso idee “antiamericane”. E anche per quanto riguarda le presidenziali del 2024, serve un candidato che rappresenti un “capitolo nuovo”.

 

Quello che in altre circostanze sarebbe stato quindi un documento interessante solo per gli addetti ai lavori, in realtà è molto di più: rappresenta una nuova fase dell’impegno politico del miliardario di Wichita Charles Koch.

 

Koch non è un tycoon qualunque: negli ultimi vent’anni ha saputo trasformare il partito repubblicano come nessun altro, senza mai scendere nell’arena delle elezioni presidenziali. Per molti anni è stato affiliato a un piccolo partito, il Libertarian Party, che mischia posizioni anarcoidi con uno rigido conservatorismo fiscale, tanto da sostenere la candidatura nel fratello David nel 1980 come vicepresidente nel ticket libertario. Non ebbe molta fortuna in quella campagna, raccogliendo circa l’1 per cento dei consensi. Per molti anni Charles, classe 1935, insieme con il fratello David, scomparso nell’agosto 2019, ha tenuto un basso profilo. Fino al 2004, quando ha creato il gruppo lobbistico antitasse in questione, Americans for Prosperity. In quell’anno il conservatorismo americano sembra aver preso un’altra direzione: sono gli anni nei quali George W. Bush viene rieletto non soltanto per il consenso che aveva per la sua politica estera interventista. Ma anche per la costruzione di un welfare alternativo al tradizionale “big government” dei progressisti, un “conservatorismo compassionevole” che quindi, pur lasciando piena libertà d’impresa, sosteneva tramite un ampio uso di correttivi anche chi rimaneva indietro.

 

Tutto questo andava radicalmente ripensato per i fratelli Koch: il partito repubblicano avrebbe dovuto abbracciare un convinto libertarismo anche attraverso una “rivolta dal basso” dei ranghi repubblicani, stufi della burocrazia e dei costi del “big government” a tutti i livelli. Così nacque il movimento dei Tea Party. I fratelli Koch, allora, pensarono di non intervenire sui vertici repubblicani, ma agendo più in basso: facendo eleggere senatori e deputati  in linea con questi princìpi, che mai e poi mai avrebbero contribuito a un’espansione dei poteri di Washington. Nel 1992, in un’intervista alla rivista liberale National Journal, aveva dichiarato in poche parole le sue idee politiche: “Massimizzare la libertà economica e quella politica”. A partire dal 2007, l’anno successivo alla sconfitta alle midterm dell’Amministrazione Bush, il network della famiglia Koch, composto dagli American for Prosperity, il Club for Growth e altre organizzazioni simili, cominciò a prendere di mira i candidati repubblicani moderati, definiti “RINO”. A fornire la militanza per questo cambiamento, furono gli aderenti del Tea Party, un movimento la cui energia “è maggiore di quello che mi aspettavo” disse in un’intervista sul Weekly Standard nell’aprile 2011. Fu proprio nell’epoca di Barack Obama che Koch riuscì a imporre la sua impronta. Alle elezioni di midterm del 2010 vennero eletti con l’aiuto delle donazioni delle varie organizzazioni dei nuovi senatori quali Rand Paul del Kentucky, Marco Rubio della Florida e Ron Johnson del Wisconsin, i quali sposavano la riproposizione moderna delle idee economiche liberiste riproposte dai vari think tank legati ai fratelli Koch.

   

Da questa trasformazione però non uscì quello che ci si aspettava: il culmine di questa rivolta, che gradualmente cambiò pelle, fu la nomina di Donald Trump come candidato presidente del partito repubblicano nel 2016. Eppure, altri candidati provarono a proporre un brand nuovo di repubblicanesimo che pur mantenendo un rigido dogmatismo fiscale, proponeva anche una riduzione della popolazione carceraria, la legalizzazione della marijuana e persino una maggiore apertura all’immigrazione regolare. Nonostante le cattive premesse, con Trump che definiva i Koch su Twitter “campioni del pensiero globalista”, si è creata una partnership d’interesse insperata. L’Amministrazione Trump varò un ampio taglio delle tasse durante il primo anno in carica che venne definito il “più avanzato degli ultimi cinquant’anni”. Sono stati nominati dei giudici in linea con il pensiero libertario, persone vicine al mondo dell’industria hanno guidato le agenzie regolatrici e persino le terre federali sono state aperte agli scavi minerari. Adesso tutto questo è finito. Secondo il Wall Street Journal, è perché Koch ha ottenuto tutto ciò che voleva. Non c’è però solo questo. In termini di spesa, il deficit federale è esploso negli anni di Trump. Un “disastro”, ha ammesso lo stesso Koch nel suo libro uscito nel 2020 “Believe in People”: a partire dall’esperienza degli ultimi anni, vorrebbe ora che quella polarizzazione da lui stesso creata anche con i toni aggressivi del Tea Party, rientrasse nei ranghi e che si costruissero dei ponti. Anzi, sotto Donald Trump, i poteri del governo federale si sono allargati, come del resto era successo anche sotto Ronald Reagan. Non è chiaro, quindi, se gli Americans for Prosperity appoggeranno la candidatura del governatore della Florida Ron DeSantis alla presidenza. Di sicuro il Partito repubblicano che ha risposto al discorso sullo Stato dell’Unione del presidente Joe Biden con la voce di Sarah Huckabee Sanders, oggi governatrice dell’Arkansas e per un paio di anni portavoce della Casa Bianca di Trump, non è quello che Charles Koch e  suo  fratello  si aspettavano. Un insieme di paranoie e di metafore belliche dove la libertà che viene invocata oggi è soltanto una clava da agitare contro il “nemico” progressista. Decisamente Koch, per citare un’altra frase autocritica dal suo ultimo libro, ha “fatto un casino”. Chissà se ora riuscirà a ricucire quel paese che ha spezzato tramite le sue organizzazioni.

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