Il 2022 dell'Afghanistan
Capodanno a Kabul sotto i talebani: tra diritti sottratti e ipocrisie occidentali
Scuole, ong, giardini chiusi alle donne, lapidazioni, terrorismo. L’horror afghano è di nuovo in scena, più feroce di prima, con gli stessi complici e il silenzio ipocrita di chi immaginava, senza ragione, un finale diverso
È stato un anno fantastico, in Afghanistan. Da quando gli afghani hanno “spezzato le catene della schiavitù” (espressione dell’ex premier pachistano Imran Khan), il paese è entrato in una nuova età dell’oro. I nuovi, amichevoli e social media friendly Taliban 2.0, talvolta addirittura celebrati dalla stampa internazionale, hanno fatto del loro meglio per prendersi cura della popolazione: che non li aveva eletti né delegati a governare, ma questi sono dettagli. Il governo, formato perlopiù da terroristi nelle liste di proscrizione di vari governi e organizzazioni internazionali, ha fatto del suo meglio per accreditarsi. Sparando, per esempio, addosso alle donne che, sfidando i divieti sia di assembramento sia di uscire senza burqa, protestano per le vie di Kabul chiedendo, oltre al diritto di lavorare e studiare, cibo e qualcosa per scaldarsi. Proiettili a parte, la popolazione è stata prontamente accontentata: con dei magnifici falò di strumenti musicali, distrutti e dati alle fiamme con tutto l’entusiasmo che deriva dalla consapevolezza di aver fatto la cosa giusta per rispondere alle esigenze della popolazione.
È stato poi il turno dei manichini nelle vetrine. Colpevoli, i manichini, non soltanto di appartenere al desecrato e pericolosissimo (per la salute spirituale e psichiatrica dei maschi talebani) genere femminile ma di indossare in bella vista vezzosi completini colorati e ricamati. Siccome i governanti di Kabul sono molto sensibili all’estetica, si sono occupati anche dei maschi locali: via i tagli all’occidentale e le guance rasate, dentro le chiome incolte e la barba che testimoniano il vero combattente.
Dai manichini si è passati poi senza soluzione di continuità alle signore in carne e ossa, che vengono onorate e protette in ogni modo dai suddetti veri maschi combattenti. “Finché vivrò, bambine e ragazze non varcheranno la soglia di quei centri di corruzione che sono le scuole”, ha dichiarato poco tempo fa il premier afghano Hasan Akhund, chiarendo una volta per tutte la posizione del suo governo sull’istruzione femminile.
All’epoca della sua dichiarazione, le bambine mancavano da scuola da circa quattrocento giorni, e soltanto alcune studentesse universitarie potevano continuare a frequentare le lezioni, con personale esclusivamente femminile e rigorosa separazione dei sessi. Discriminatorio, vero? Così, il problema è stato risolto qualche giorno fa: anche le universitarie devono rimanere a casa, così come le donne che lavoravano nelle ong nazionali e internazionali. Tanto, ammesso che le scuole riaprissero, sarebbero in molte a non poterle frequentare. A donne e ragazze è stato imposto ormai da mesi di non allontanarsi da casa per più di un certo numero di metri senza un accompagnatore di sesso maschile. Ne consegue che chi non ha padri, fratelli, mariti o zii disponibili ad accompagnarla a scuola o altrove, è di fatto confinata dentro casa. D’altra parte, non saprebbe dove andare.
Tempo fa sono stati vietati a donne e bambine anche i giardini, i bagni pubblici, le palestre e i parchi di divertimenti della capitale. A quanto pare, secondo i talebani, non era sufficiente, come era stato ordinato mesi fa, istituire giorni per sole donne dentro a giardini e ruote panoramiche: le donne devono stare a casa. Sono libere al massimo, come succede sempre più spesso, di sedere per ore davanti ai negozietti che vendono pane sperando che qualcuno paghi per un paio di naan (il pane afghano) con cui sfamare i bambini.
Se sei vedova e sola infatti non puoi lavorare e nemmeno dar da mangiare ai tuoi figli. Se protesti, finisci in galera o peggio. Finisci sposata per forza a un qualunque guerrigliero talebano, perché le donne, come ordina il dio dei governanti dell’Afghanistan, devono avere un uomo che le “protegge”: riempiendole di botte e stuprandole, se necessario. Nel frattempo, difatti, l’invisibile leader supremo del gruppo di terroristi che governa Kabul, Haibatullah Akhundzada, ha ordinato ai giudici afghani di implementare la sharia, le legge islamica, nel senso più restrittivo possibile. Il che significa: mani mozzate ai ladri, flagellazione o lapidazione per le adultere e via così.
La legge è ispirata al modernissimo principio dell’occhio per occhio. Non solo. Nelle sue più illuminate e garantiste versioni dell’Hoodood e della Qisa, richiede delle “prove schiaccianti” di colpevolezza: la testimonianza, cioè, di quattro testimoni maschi e musulmani. La testimonianza di una donna non vale nulla, e quando vale, vale metà di quella di un uomo. Così, nei casi di denuncia per stupro, nel caso in cui i quattro maschi musulmani richiesti (che, se erano presenti erano di solito gli stupratori) non testimonino a favore della vittima, la signora viene mandata in galera o lapidata per adulterio. Succede anche in Pakistan, per inciso. E così, in perfetto stile Nerone, all’inizio di dicembre i talebani hanno ricominciato ad aprire stadi e piazze offrendo alla popolazione ameni spettacoli gratuiti: flagellazione e lapidazione pubblica di adultere, omosessuali e affini.
Una frase attribuita in genere ad Albert Einstein recita pressapoco così: “Compiere di continuo la stessa azione aspettandosi ogni volta un risultato diverso è uno dei sintomi certi della malattia mentale”. E si addice perfettamente a quanto è successo all’epoca dei famigerati accordi di Doha tra gli Stati Uniti (e la Nato) e i talebani. Riportare al potere i terroristi di Kabul, gestiti neanche tanto da remoto da quello stato creatore di terroristi che è il Pakistan, e aspettarsi da loro un comportamento diverso da quello tenuto nei dorati anni del loro governo alla fine degli anni Novanta era pura follia. Soprattutto perché i talebani non hanno mai fatto mistero della loro precisa volontà di governare ancora una volta il paese attenendosi strettamente alla legge islamica.
A poco valgono quindi le dichiarazioni (piuttosto caute, a dire la verità) di tutti coloro che si sentono “oltraggiati” dalle ultime mosse dei talebani. A cominciare dal segretario dell’Onu Antonio Guterres, che fino a cinque minuti fa ripeteva il mantra della necessità del dialogo, una specie di “give Taliban a chance”, premendo, come molti altri, perché fossero sbloccati i fondi degli aiuti al governo afghano congelati nelle banche americane.
Ciò che fa meraviglia non è la catastrofe annunciata che si sta svolgendo in Afghanistan, ma l’ipocrisia dell’occidente. In ottobre a Riga, durante una conferenza di alto livello, Baiba Braže, assistente segretario della Nato per la diplomazia pubblica, ha testualmente dichiarato: “Abbiamo portato via coloro che lavoravano con noi e stiamo facendo un buon lavoro nel costringere i talebani a mantenere gli accordi presi”. Quali accordi? Il massacro della popolazione? La cancellazione di ogni parvenza di diritti umani e civili? Il franchising di campi di addestramento per terroristi dati in gestione ai gruppi jihadisti pachistani? Le alte cariche pubbliche attribuite a membri di al Qaida? Qualcuno si ricorda che al Zawahiri è stato ammazzato a Kabul in una casa controllata dagli Haqqani (e portato là dai pachistani, in cambio di concessioni finanziarie)? Che di recente alcuni cinesi sono stati attaccati in una guest house di Kabul?
Quegli stessi cinesi che, secondo l’ex vicepresidente afghano Amirullah Saleh, si trovavano da mesi a Bagram per addestrare le milizie della rete Haqqani, così come fanno da un po’ in Pakistan, a Peshawar e a Quetta. Addestrano quella stessa rete Haqqani, tanto per capirci, che da decenni insanguina l’Afghanistan con attentati particolarmente efferati e che ha come partner storici al Qaida e l’Isis-K, ramo Khorasan dell’Isis. Lo stesso Isis-K, anch’esso come la rete Haqqani sotto il controllo dell’Isi pachistana, che avrebbe al momento il compito di creare una cortina fumogena per il governo dei talebani compiendo attentati e assumendosene la responsabilità, in modo da creare, agli occhi dell’occidente, l’ennesima dicotomia: talebani buoni, Isis-K cattiva.
Così, mentre il resto del mondo è occupato a discutere di diritti umani e delle donne di Kabul invitando in occidente i talebani che viaggiano in jet privati, si stende una conveniente corte di silenzio sul resto, silenzio rotto soltanto dalla chiamata a riaprire le scuole.
Lo stesso silenzio che circonda la transazione tra la Banca centrale afghana, un’azienda polacca e una francese (la Oberthur Fiduciaire) per stampare e consegnare nuove banconote al governo dei talebani. O i tre milioni e mezzo di dollari, parte dei fondi congelati al governo terrorista di Kabul, che sono stati trasferiti in Svizzera in un fondo di cui fa parte Shah Mehrabi, membro del consiglio di amministrazione della Banca centrale afghana. Che giura e spergiura che le nuove banconote non saranno adoperate per finanziare attività illecite o per finanziare il governo, ma che andranno soltanto a sostituire le vecchie. E i talebani, si sa, “sono uomini d’onore”.
D’altra parte, se è vero che i talebani non sono stati formalmente ancora riconosciuti da alcun governo, è vero anche che in modo informale un certo numero di governi fa affari con loro, a cominciare da Pakistan, Cina e Qatar. E che tutti, Stati Uniti e Nato in testa, fanno finta di credere che il problema principale dell’Afghanistan siano i diritti delle donne e che, risolto quello, potremo tutti dormire con la coscienza tranquilla. Fino al prossimo attacco terroristico, progettato in Pakistan, benedetto dalla Cina ed eseguito in Afghanistan. La storia ha la fastidiosa tendenza a ripetersi. E aspettarsi risultati diversi compiendo la stessa azione è, adesso lo sappiamo, sintomo di follia. Come guardare un film già visto aspettandosi che cambi il finale, quando lo sappiamo benissimo come va a finire.
L'editoriale dell'elefantino