Foto di Rebecca Blackwell, via LaPresse 

L'intervista

Nonostante le sconfitte elettorali e giudiziarie, liberarsi di Trump sembra impossibile

Luciana Grosso

Secondo Taylor Green, repubblicana radicale, "la parte trumpiana del partito, pur essendo meno numerosa, è più compatta, mobilitita, organizzata". E il tycoon e i suoi successori diventano quasi intoccabili

Martedì negli Stati Uniti sono successe due cose apparentemente slegate: la prima è stata l’elezione in Georgia del democratico Raphael Warnock al Senato; la seconda, a New York, è stata la condanna per frode fiscale della Trump organization (Donald non era tra gli imputati, ma lo era il suo ex direttore finanziario Allen Weisselberg). Nell’America dominata dalla figura di Trump, tutto viene usato come un vaticinio delle prossime elezioni presidenziali e, più in generale, della longevità politica dell’ex. In linea teorica, un leader politico che incassa, in meno di 24 ore, una pesante condanna penale per l’azienda di famiglia e una sconfitta elettorale, dovrebbe essere al tramonto della sua carriera. Non Trump. 

“Era ancora il 2016 quando Trump, non ancora diventato presidente, riassunse in una sola frase, detta quasi per caso, l’essenza stessa del suo consenso: ‘Potrei sparare a una persona in pieno giorno, in piena Fifth Avenue, e per i miei elettori non cambierebbe assolutamente niente’. Sei anni dopo quella frase, che all’epoca sembrava assurda, si è rivelata completamente vera”, dice Robert Draper, giornalista del New York Times Magazine e narratore delle vicende che riguardano il partito repubblicano. Il suo ultimo libro si chiama “Weapons of mass delusion – When the republican party lost its mind” e racconta il processo di progressiva radicalizzazione del partito repubblicano, un processo del quale il 6 gennaio non è stato il culmine, ma il punto di partenza, perché quei disordini, quel tentato golpe, quei cinque morti, non hanno portato a nessuna risacca del trumpismo ma, al contrario, a un suo ulteriore spostamento a destra, ad alzare ancora di più i toni. 

“Una volta Marjorie Taylor Greene – una delle più radicali e accese esponenti del movimento trupiano MAGA – mi disse: ‘C’è una guerra in corso nel partito repubblicano. E io sono qui per combatterla’. Per questo prima di discutere di cosa potrebbe succedere nella poltica americana dei prossimi anni, ci tocca comprendere cosa succederà nel partito repubblicano e nella ‘guerra’ che lo attraversa. Il problema principale, che le ultime primarie hanno ampiamente dimostrato, è che la parte trumpiana del partito, pur essendo meno numerosa, è più compatta, mobilitita, organizzata. E così ha annichilito e ridotto al silenzio la parte non trumpiana, che pure c’è ed è, in teoria, più numerosa. Solo che è terrorizzata: contestare Trump, per un repubblicano di oggi, significa, come minimo, finire in piena gogna social, ma anche dire addio alla prorpia carriera politica e persino alla sicurezza della propria famiglia. Un rischio che nessuno si sente di correre”. 

Così Trump oggi è intoccabile, anche se perde un’elezione dopo l’altra (tre di fila, contando le midterm del 2018). 

“Non ci sono ragioni per credere che ci siano leader, nel partito repubblicano, che possano avere la forza e il coraggio di attaccare o spodestare Trump. Anche lo stesso Ron DeSantis, il cui nome circola molto, è un leader la cui storia è ancora tutta da scrivere. Soprattutto, non ha mai avuto Trump come nemico. E avere Trump come nemico significa uscirne in ogni caso a pezzi. Trump non è uno che combatte o discute. Trump distrugge. Lo ha fatto nel 2016 con politici molto più navigati di DeSantis, gente come Jeb Bush, Ted Cruz o Marco Rubio. Non sappiamo cosa potrebbe succedere con DeSantis”, continua Draper.

Così, in attesa che il tempo e le primarie, la cui macchina si metterà in moto già prima dell’estate, ci rivelino il nome del vincitore della guerra interna ai repubblicani, tutto, nella poltica elettorale americana, appare fermo. Perché fino a quando non si conoscerà il destino di Trump, neppure i democratici sapranno bene come comportarsi. 

Negli ultimi anni, per quanto paradossale possa sembrare, Trump è stato il più grande alleato dei dem, assicurando loro i voti di milioni di elettori indipendenti e di repubblicani non trumpiani, e soprattutto rivelandosi un magnete in grado di tenere insieme i pezzi di un partito molto diviso al suo interno. Se Trump dovesse uscire di scena, questo magnete verrebbe meno, e con esso, anche l’unità del partito. 

“Gli elettori più giovani e delle minoranze di colore scalpitano da tempo per avere politiche più progressiste e incisive; gli elettori latini si stanno spostando a destra; Biden non ha sciolto la riserva sul 2024 e se dovesse decidere di non ricandidarsi si aprirebbe di nuovo la partita delle primarie. Diciamo che se per i dem non si può parlare di ‘guerra’, certo non si può dire che siano in pace”. 

Di più su questi argomenti: