Il voto di metà mandato

Il post trumpismo è peggio del trumpismo. I suoi miti fondativi e il piano del ritorno

Giulio Silvano

L’eredità dell’ex presidente ha sfasciato i conservatori e la credibilità dell’America, dice al Foglio Gunner Ramer, il direttore politico del Republican Accountability Project

Washington. Donald Trump ha partecipato a diversi comizi per appoggiare i suoi candidati alle elezioni di metà mandato che si sono tenute ieri. A sentire le voci della folla, la maggior parte della gente veniva per lui, e non per eventuali governatori, senatori e deputati, viaggiando anche diverse ore per vederlo e per sentirlo parlare male di Joe Biden e dei media. Mentre il candidato al Senato della Pennsylvania, Mehmet Oz, parlava sul podio per pochi minuti al comizio di Latrobe, il pubblico era in coda agli stand di hot dog e di popcorn; per due ore invece decine di migliaia di persone sono state con gli occhi al cielo ad aspettare il Trump Force One, iniziando a urlare “Trump, Trump, Trump” quando lui era ancora in aria, e poi per altre due ore sono rimaste esaltate ad ascoltarlo. Trump ha così risentito i  brividi del 2016, e sta preparando il suo ritorno: “Martedì 15 novembre, a Mar-a-Lago, in Florida, farò un annuncio molto importante”, ha detto a uno degli ultimi comizi, in Ohio.

 

A tutti gli eventi l’ex presidente ha lasciato passare due messaggi che sono diventati la chiave del trumpismo: le elezioni del 2020 sono state una farsa – “in realtà ho vinto io” – e l’attacco al Congresso del 6 gennaio del 2021 è stata la più grande prova di fiducia mai ricevuta dal suo elettorato.  In Nevada, Trump ha detto: “Sapete qual è la folla più grande che abbia mai visto? Quella del 6 gennaio. E nessuno lo dice mai. Era la più grande di tutte. Erano lì quasi tutti per protestare contro un’elezione truccata, rubata, corrotta. E’ stata, credo, la folla più grande a cui abbia mai parlato”. L’ex presidente ha già fatto capire che se ridiventerà presidente darà la grazia agli oltre 300 condannati per l’attacco a Capitol Hill. 

 

“Donald Trump oggi controlla il Partito repubblicano”, dice al Foglio Gunner Ramer, il direttore politico del Republican Accountability Project, un’organizzazione formata da conservatori anti trumpiani il cui obiettivo è difendere i “princìpi repubblicani” e denunciare i responsabili per il 6 gennaio. Sarebbe difficilissimo batterlo alle primarie, continua Ramer, “il Partito repubblicano oggi è il partito di Trump e dei suoi fedeli e questo non cambierà nell’immediato futuro. Continuare a seminare sfiducia nei confronti del nostro sistema elettorale è un pericolo per la democrazia. Alcuni candidati sono addirittura arrivati a dire che non avrebbero certificato le elezioni del 2020 se ne avessero avuto il potere. Per cambiare, questo Partito repubblicano, deve essere sconfitto duramente nel corso di diversi cicli elettorali”.

 

La paura dei conservatori anti Trump è che nessuno internamente possa fermarlo per provare così a ridare lustro al partito di Lincoln, Reagan e Bush. L’eventuale scontro con il governatore della Florida, Ron DeSantis, non spaventa il presidente. “Abbiamo capito che Trump non ha paura a colpire qualsiasi repubblicano che lo ostacoli”. Trump, in queste elezioni di midterm, è riuscito spesso a portare i suoi candidati allo scontro finale contro i democratici, selezionando personaggi a volte più estremisti di lui. “Per vincere le primarie repubblicane bisogna mentire e promuovere teorie cospirazioniste sulle elezioni del 2020”, spiega Ramer, con amarezza: “La possibilità che questi negazionisti elettorali possano gestire elezioni future è davvero terribile per la nostra democrazia. E poi va aggiunto che c’è una concreta  possibilità che alcuni candidati del Partito repubblicano rifiuteranno di riconoscere la loro sconfitta, a queste midterm. Abbiamo visto quanto è stato pericoloso nel 2020 e con quello che è successo il 6 gennaio. Oggi il problema di fondo è che abbiamo uno dei due partiti principali, quello repubblicano, che non crede nello stato di diritto e nel rispetto dei nostri processi elettorali”. 

 

La politica americana è ferma a questo: per entrambi i partiti il gioco ruota intorno allo sdoganamento della violenza voluto da Trump. Dal 2020 chiunque perda un’elezione potrà dire: non è vero, in realtà ho vinto, e non sembrerà una follia, almeno non a una parte del paese. La polarizzazione è sempre più estrema e sembra insanabile. Per convenienza o per cecità il Partito repubblicano si è piegato a Trump, pensando di poterlo gestire, pensando di potersi liberare di lui quando non gli avrebbe fatto più comodo, ma si sbagliava. I critici interni, i conservatori anti Trump, sono stati tutti quanti fatti fuori, in un modo o nell’altro, e in queste elezioni hanno addirittura appoggiato pubblicamente dei candidati democratici. 

 

I democratici questo autunno hanno provato in ogni modo, fino all’ultimo secondo, a convincere gli elettori indecisi che la vittoria dei repubblicani è un rischio per la democrazia. Che si candidi o no, che vinca o no, Trump lascia già oggi un’eredità che ha cambiato il modo in cui una parte del paese percepisce le istituzioni democratiche, creando una mitologia che si basa sulla sopraffazione. Il trumpismo, questo mostro che unisce populismo, impetuosità, nostalgia per una fantasiosa America del passato, ammirazione per l’autoritarismo, ammiccamento al suprematismo bianco, persecuzione dei traditori, autarchia e rifiuto delle strutture democratiche, sopravvivrà al suo dr. Frankenstein, attraverso nuove figure politiche e attraverso un atteggiamento che fa brillare gli occhi delle folle, e che sarà difficile debellare in poco tempo. Il post trumpismo rischia di essere più feroce di Trump.