le rivolte iraniane

La casa-museo di Khomeini in fiamme rappresenta il falò dei simboli dell'Iran

Tatiana Boutourline

Brucia la dimora del padre della rivoluzione del ’79. Ora per il regime la sfida è su tre fronti: la questione femminile, la pacificazione con le università e con le regioni che hanno rivendicazioni identitarie

C’è stato un tempo in cui ai rivoluzionari pareva di intravedere il volto di Ruhollah Khomeini sulla Luna. Salivano sui tetti piatti delle case, alzavano il mento verso l’alto e un dito verso il cielo e sospiravano: “Dio è grande”. Era novembre anche allora, il novembre del 1978, Khomeini sarebbe tornato in Iran il primo febbraio del ’79, ma intanto quell’autunno, quel grido: “Dio è grande” correva di bocca in bocca. In una notte di luna piena, il 27 novembre, i tassisti fermarono le macchine in mezzo al traffico pur di assistere al miracolo della sua apparizione nel cielo sopra Teheran. Quarantaquattro anni dopo, il volto del padre della Repubblica islamica s’accartoccia sotto le suole delle scarpe dei nipoti della rivoluzione. Da nove settimane le bambine strappano le sue immagini dai libri e i ragazzi imbrattano di rosso sangue i suoi murales. Giovedì notte una folla di manifestanti si è riversata per le strade di Khomein, la piccola città a nord-ovest di Esfahan che gli ha dato i natali. Khomein è il tipico centro di provincia, apparentemente tradizionalista, di cui gli analisti fino all’altro ieri avrebbero detto: un conto è Teheran e un conto è il resto dell’Iran. Eppure a Khomein, la sonnolenta cittadina meta di devoti pellegrinaggi, le ragazze hanno sfilato senza velo invocando “libertà!” e i ragazzi le hanno fiancheggiate rispondendo: “Morte al dittatore!”. A ogni boccata a Khomein si respirava fervore rivoluzionario. 

“E’ un’onda inarrestabile la stiamo cavalcando, nessuno riuscirà  a fermarla”, ha spiegato un ragazzo, ma era un fervore di segno opposto rispetto a quello che riempiva l’aria nell’autunno del ’78, un fervore più allegro, più colorato, a tratti più disperato e infinitamente più consapevole. Gli agenti hanno cercato di disperdere i manifestanti lanciando lacrimogeni, loro correvano urlando: “Siete senza onore”, e nel frattempo la casa-museo del padre della rivoluzione era già stata data alle fiamme. La stessa notte un video diffuso dal collettivo di attivisti @1500tasvir mostrava gli archi di una facciata del seminario della città santa di Qom aggrediti dal fuoco.

 

Prevedibilmente il regime ha negato l’evidenza. I canali della tv pubblica non parlano delle manifestazioni, ma il problema per il regime è che la tv di stato non la guarda nessuno, tutti hanno il satellite, inclusi i pasdaran, gli ayatollah e i colletti bianchi del deep state –  tutti prima o poi riescono a connettersi a un Vpn,  e intanto a descrivere il nuovo Iran ci pensa la geografia urbana. A Mashad, la città di Ali Khamenei e del santuario dell’Imam Reza, è comparsa la scritta “E’ la fine” su un lenzuolo che pendeva giù da un ponte pedonale; a Teheran fantocci di Khomeini e di Khamenei ondeggiano dai cavalcavia, hanno il viso deturpato o una corda al collo.  Ma sono ubiqui pure i cartelloni strazianti con i volti dei ragazzini uccisi. Venerdì l’immagine di Kian Pirfalak, un bambino di 10 anni che viveva a Izeh, in Khuzestan, e sognava di diventare un inventore, campeggiava da un ponte sopra l’autostrada Niayesh di Teheran. “Il potere che uccide i bambini”, c’era scritto. La stessa mattina si è svolto il suo funerale e ha preso la parola la madre. “Non lasciate che vi dicano che si è trattato di un attacco terroristico. E’ stata la polizia a uccidere mio figlio”. Pesano come pietre le parole della madre di Kian, pesano quanto quelle del padre di Salar Mojaver che davanti alla tomba del figlio ha detto: “Non ho più lacrime da piangere. Mio figlio non è più solo mio, ora è il figlio di questa nazione”. “I martiri non muoiono mai”, gli ha risposto una folla commossa e battagliera, come accadde due mesi fa durante il funerale di Mahsa Amini.  


Il regime non è mai stato tanto fragile però è ancora troppo forte per fallire, seguitano a spiegare gli analisti. Ma intanto i simboli della Repubblica islamica cadono come birilli; per paura degli agguati dei ragazzini, i mullah camminano guardandosi le spalle, i proprietari dei café non osano più redarguire le mal velate, sebbene un’infrazione possa costare la licenza, le donne girano senza velo nei centri commerciali e gli esponenti del governo tremano ogni volta che sono costretti ad apparire in pubblico. Le manifestazioni scoppiano come piccoli fuochi  da un capo all’altro del paese. Il movimento è come un corpo vivo che ogni giorno reagisce e si rigenera, ha spiegato al Foglio un’attivista. E intanto per il regime, la sfida si combatte su tre fronti. Il primo è la questione femminile, una questione colossale intorno alla quale l’élite clericale si avvita da almeno  vent’anni (“non possiamo imporre l’obbligo del velo con le armi e i manganelli”, diceva nei primi anni Duemila l’ex ministro dell’Interno Abdollah Nouri). Il secondo è l’obiettivo di pacificare le università in cui il cuore della rivolta batte a ritmo ogni giorno più accelerato. Il terzo è quello di riportare la calma nelle regioni in cui le rivendicazioni identitarie dei curdi, dei baluci  e delle minoranze sunnite si saldano alla protesta e la irrobustiscono. Qualche timida voce nell’establishment suggerisce un approccio più dialogante, ma la dottrina della Guida suprema non prevede la trattativa. “Ho sentito la voce della vostra rivoluzione”, disse lo Scià nel ’78, e  secondo Khamenei si trattò del suo errore fatale. “E’ stato in quel momento che abbiamo annusato l’odore del sangue”, ha spiegato in un celebre discorso. Ma in Iran lo stesso profumo, il profumo della vittoria, accende milioni di sogni. “Provino pure a fermarci –  ha detto un manifestante al Foglio – Sarà come svuotare il mare con un cucchiaino”.

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