elezioni di midterm

Philadelphia ha studiato gli antidoti al trumpismo e si concede persino un po' di ottimismo

Giulio Silvano

Perché i dem pensano di poter battere Doug Mastriano e il Dr Mehmet Oz in Pennsylvania

Philadelphia. Sui lampioni del Love Park, dove la sera parecchi senzatetto si mettono in fila per l’acqua e il cibo portati dai volontari, sono stati attaccati dei cartelli con scritto: “Stop the racists. Vote now”, ferma i razzisti, vota subito. I razzisti, è sottinteso, sono i repubblicani che qui, in Pennsylvania, potrebbero sottrarre al Partito democratico del presidente Joe Biden la maggioranza al Senato, e potrebbero anche far diventare governatore   Doug Mastriano, che era davanti al Campidoglio il 6 gennaio 2020, il giorno dell’attacco che è diventato uno spartiacque nella storia politica dell’America. Biden, in questi ultimi giorni prima delle elezioni di metà mandato dell’8 novembre, cerca di parlare anche ai repubblicani più moderati. 

 

Il negazionismo elettorale di molti trumpiani, ha detto Biden, è una minaccia per la democrazia: “Ci sono candidati che dicono che potrebbero non accettare i risultati delle elezioni. Questa è la strada che porta al caos negli Stati Uniti”, ed è un atteggiamento anti americano. Su questo è d’accordo il politologo Matthew Levendusky, che insegna Scienze politiche all’University of Pennsylvania ed è l’autore del saggio “The partisan sort: how liberals became democrats and conservatives became republicans”. “Quest’anno abbiamo visto due tipi di minacce”, dice al Foglio il professor Levendusky: la prima è appunto il negazionismo elettorale, “se le elezioni sono legittime solo quando vince uno dei due partiti, questo mina la democrazia. La seconda è la violenza politica, come l’attacco a Paul Pelosi, il marito della speaker democratica del Congresso. Le élite di entrambi i partiti devono parlare in modo chiaro e forte contro violenze di questo tipo”. Molti lo hanno fatto, “ma quando alcune voci, soprattutto repubblicane, non denunciano questi attacchi, si creano delle ramificazioni importanti”. 

 

Lo scontro per il Senato in Pennsylvania vede da una parte il democratico John Fetterman, uomo massiccio, sempre in felpa, pelato, barba e tatuaggi, ex sindaco di Braddock, autoproclamatosi un underdog, che ha avuto un ictus a maggio che ne ha danneggiato la campagna. Dall’altra c’è Doctor Mehmet Oz, ex personaggio televisivo appoggiato da Donald Trump, diventato famoso per i suoi rimedi medici nel programma di Oprah, la quale qualche giorno fa ha dato il suo appoggio a Fetterman. “La Pennsylvania è critica”, ci dice Levendusky: “Se i democratici riescono a mantenere tutti i seggi, allora avranno 51 voti, e quindi non dovranno tenersi stretto il loro senatore più conservatore, Joe Manchin”. Ma cosa succede se i repubblicani prendono la maggioranza del Senato? Gli effetti non sono soltanto legislativi, “per Biden sarà più difficile, se non impossibile, confermare i giudici. Tutti pensano a quelli della Corte suprema, ma le corti di grado inferiore non sono meno importanti, considerato che la Corte suprema si occupa solo di una minima parte dei casi del sistema federale”. 

 

I membri del Partito repubblicano sono sicuri di prendersi Camera e Senato, questo 8 novembre. Non l’hanno detto in modo troppo esplicito, ma a Washington hanno già iniziato a fare piani per alzare l’età pensionabile e tagliare sicurezza sociale e Medicare, la copertura sanitaria. In risposta, Biden ha cercato di puntare in questi ultimi giorni di campagna proprio su questi temi finora poco presenti, mostrando i repubblicani come i nemici della working class. La gran parte dei giornali e degli analisti conferma che i repubblicani riusciranno a prendersi il Senato. C’è chi però è più ottimista. Tra questi, il senatore democratico di New York Chuck Schumer, grande mediatore tra le diverse aree del partito, che ha detto: i democratici potrebbero addirittura guadagnare dei seggi. Con l’inflazione che non li aiuta, sperano che il ribaltamento della sentenza Roe vs Wade, che limita il diritto all’aborto, mobiliti l’elettorato. Il regista e attivista liberal Michael Moore è dello stesso avviso:  ospite in televisione due giorni fa ha detto: “Noi siamo più di loro”. 

 

Anche Bob Brady sottolinea che nelle ultime elezioni il voto popolare è sempre andato ai democratici. Per oltre vent’anni deputato al Congresso per il primo distretto della Pennsylvania, nato e cresciuto a Philadelphia, figlio di un poliziotto irlandese, Brady da tre decenni è a capo del Partito democratico di Philadelphia. Ha sempre vinto il suo seggio con oltre l’80 per cento dei consensi, a volte superando anche il 90, e alcuni lo considerano uno dei più importanti policymaker degli anni 2000. Dice al Foglio: “Questa è Philadelphia. Qui prendiamo la politica molto seriamente. Non è un gioco per bambini”. Dice che nella corsa governatoriale, tra Mastriano, un “antisemita dichiarato e fiero di esserlo”, e il democratico Josh Shapiro, ebreo, procuratore generale dello stato, non c’è dubbio, mentre al Senato la differenza sarà più risicata. “Shapiro distruggerà Mastriano. Fetterman vincerà per un pelo”. Dice che Mehmet Oz, che lui chiama il mago di Oz, perderà anche perché “non è veramente di qui, è del New Jersey, e ha scelto questo stato solo perché c’era un posto libero per candidarsi come senatore. Si vanta di aver girato tutta la Pennsylvania, ma è la prima volta che ci viene. Fetterman invece è sempre stato qui”. Brady continua: “Mastriano è un vero estremista, una minaccia seria, è uno che ha pagato per mandare i bus pieni di gente quando è stato attaccato il Campidoglio. Vuole controllare le elezioni nello stato”. Ma non tutti i repubblicani sono così, “a Washington molti sono persone serie. Conoscevo bene Dick Cheney, ci ho lavorato a lungo”. Mostra una foto incorniciata assieme all’ex vicepresidente di George W. Bush: allora Brady era a capo della commissione che si occupava delle operazioni interne della Camera. “Quando poi sua figlia Liz Cheney è arrivata al Congresso rappresentando lo stato del Wyoming è venuta a dirmi: ‘Mio padre mi ha detto che dovrei ammirarti’. Guardate ora cosa le ha fatto Trump”. Cheney è stata battuta alle primarie del partito e non tornerà a Washington, come molti altri membri del Partito repubblicano che hanno provato a opporsi al trumpismo. “Se parli con i repubblicani in realtà molti non sopportano Trump. Il partito è in imbarazzo”. Ma anche i democratici hanno dei problemi, vengono criticati per non riuscire a rapportarsi con grosse fette della popolazione. “Dobbiamo condividere un nuovo messaggio, e parlare alle lavoratrici e ai lavoratori”, dice Brady, che è convinto che non ci sia un problema con l’ala più a sinistra del partito: “Non hanno mai causato veri problemi, né Bernie Sanders, né Elizabeth Warren. Alla fine tutti hanno sempre appoggiato Joe Biden. Lavoriamo sempre insieme. Durante le primarie si litiga, ce ne si dice di tutti i colori, come si fa in famiglia, ma poi dopo si va uniti contro i repubblicani, che non dovremmo vedere come nemici, ma come oppositori e basta”. 

 

Nel suo ufficio Bob, 77 anni, con addosso un giubbino dei Phillies, è circondato da fotografie dove è in posa assieme a Bill Clinton, Barack Obama e Biden, che lui chiama Joe: “E’ un amico, ci conosciamo da più di quarant’anni”. Dice che “ha fatto un ottimo lavoro, e spero che si ricandiderà alle prossime presidenziali”, che si terranno nel 2024. Dice che i repubblicani non vinceranno né adesso né tra due anni, perché se all’inizio “la gente è cascata nella retorica di Trump, dopo quattro anni al potere si è resa conto che era una farsa”. Ma Trump si ricandiderà davvero, magari il 14 novembre come dicono alcuni? “Se lo fa, perderà di nuovo perché adesso le persone sanno chi è davvero – dice Brady – E’ responsabile del clima di violenza che c’è oggi. Ma spero che si candidi, così almeno possiamo batterlo una seconda volta”. Questo è il motivo per cui, secondo molti, Biden non ha ancora annunciato una sua candidatura: vuole prima vedere cosa fa il suo rivale. Entrambi, il 5 novembre, saranno in Pennsylvania, per gli ultimi grandi eventi prima del voto. Nel resto del paese il presidente evita gli stati dove la sua approvazione è più bassa. Così è  rispuntata anche Hillary Clinton, che si è presentata a New York per appoggiare la candidata Kathy Hochul, insieme alla vicepresidente Kamala Harris. La stessa Liz Cheney si è presentata in Michigan per sostenere una candidata democratica: Elissa Slotkin. Jill Biden, la first lady, invece è andata in Arizona, un altro stato in bilico dove il marito non è molto amato. A dare manforte al presidente in Pennsylvania il 5 novembre ci sarà anche Obama, asso nella manica ritirato fuori in un momento delicato, forse per ricordare l’entusiasmo degli anni Dieci, anche se con lui si corre sempre il rischio che nostalgia e confronti abbiano il sopravvento, impietosi.