La congiura dei boiardi

Si sente qualche scricchiolio tra i governatori russi

Micol Flammini

Piccole defezioni tra chi si occupa della mobilitazione voluta da Putin e che fa i suoi conti di fedeltà e su come salvare la faccia e il potere

Il trenta per cento delle aziende russe sta cercando di ottenere delle esenzioni dalla mobilitazione per i propri dipendenti. Le scuole sono state chiamate a redigere elenchi di professori adatti ad andare a combattere in Ucraina e alcuni presidi sono in difficoltà, tanto da aver chiesto al ministero dell’Istruzione il permesso di tenere gli  insegnanti ai loro posti di lavoro perché già ce ne sono pochi e gli istituti farebbero fatica a coprire le assenze. La mobilitazione parziale ordinata da Vladimir Putin in Russia è organizzata su base regionale e,  come era già accaduto durante la pandemia, il presidente ha lasciato ai governatori il compito di portare a termine una mansione molto impopolare: durante la pandemia aveva a che fare con la necessità di imporre delle restrizioni  per salvare la vita dei cittadini, ora  con la convocazione  della popolazione maschile da mandare in Ucraina. 

 

Con la pandemia e a maggior ragione  con la guerra, i governatori non sono sempre pronti a prendersi le responsabilità richieste dal Cremlino, la tentazione è quella di salvare la faccia e il potere davanti a un evento che sta stravolgendo la vita dei russi. Se negli anni della pandemia sono stati disposti a sacrificarsi per tutelare il presidente, convinti che li avrebbe ricompensati, ora sono indecisi se la loro salvezza stia con il Cremlino, che chiede un sacrificio disumano alla popolazione, o con la popolazione, che si oppone alla mobilitazione. La scorsa settimana il leader della Repubblica del Daghestan, Sergei Melikov, molto integrato nel mondo del Cremlino visto il suo passato come colonnello della Guardia nazionale, si è scagliato contro i reclutatori militari che andavano in giro per le strade di Derbent, la seconda città del Daghestan, a bordo delle loro auto con gli altoparlanti accessi gridando agli uomini di presentarsi “urgentemente” ai commissariati militari locali muniti di documenti. Melikov ha detto che nessuno aveva dato a questi reclutatori il permesso di andarsene in giro per Derbent con richieste simili, li ha accusati di spargere disinformazione, motivo per il quale potrebbero incorrere in qualche pena. Tra persone che fuggono e persone mobilitate ci sono aree della Russia che rischiano di paralizzarsi, anche perché per ovviare a un arruolamento lento e macchinoso, la mobilitazione che i reclutatori stanno facendo è veloce e spesso grossolana, senza una vera selezione e le notizie su come vengono trattati i soldati si spargono in fretta: ieri tre uomini mobilitati sono morti nel centro di addestramento nella regione di Sverdlovsk, uno per attacco epilettico, un secondo si è suicidato, il terzo  di cirrosi epatica. 

 

I fedelissimi del Cremlino ci sono, come il  capo della Yakutia, Andrei Tarasenko, anche lui ex militare, che ha  chiesto al commissariato di mobilitare almeno 150 persone al giorno per non lasciare che gli aerei della Difesa partano vuoti e senza nuovi soldati. Il leader della Cecenia Ramzan Kadyrov, invece, ha annunciato di aver mandato anche i suoi tre figli minorenni in Ucraina che hanno, rispettivamente, quattordici, quindici e sedici anni, mettendosi alla stregua della tradizione staliniana – il dittatore sovietico mandò a combattere suo figlio Yakov e si rifiutò di liberarlo dalla prigionia dicendo che non avrebbe mai scambiato un soldato con un generale, come chiedevano i nazisti –  e dimostrando anche che lui non fa certo come Dmitri Peskov, il portavoce del Cremlino, che permette a suo figlio di rimanere al sicuro e di rifiutarsi di andare a combattere. A Khabarovsk, una regione che negli scorsi anni ha dato prova di saper organizzare proteste tenaci e ordinate, il governatore Michail Degtyarev ha  licenziato il capo del commissariato militare locale per aver organizzato un reclutamento troppo zelante e aver arruolato anche uomini che non rispondevano ai criteri stabiliti dal ministero della Difesa, almeno la metà sono stati rimandati a casa. Qualche settimana fa Degtyarev, per dimostrare la sua lealtà al Cremlino e la sua fede nell’invasione dell’Ucraina, aveva detto che sarebbe andato volentieri a combattere contro Kyiv, ma i suoi doveri da governatore non glielo permettevano, i cittadini di Khabarovsk hanno allora organizzato una petizione, firmata da migliaia di persone, per liberare Degtyarev dal suo incarico e mandarlo a combattere. In pochi giorni il governatore deve aver pensato che anziché dimostrare la sua fedeltà assoluta al Cremlino, per il suo futuro sarebbe stato meglio far vedere alla popolazione che la stava proteggendo da una mobilitazione forsennata. 

 

Sono defezioni piccole e crepe silenziose, ma i governatori che godono di abbastanza popolarità tra la popolazione sembrano convinti che non convenga ascoltare il Cremlino e farsi sponsor della mobilitazione: per salvare la faccia e la posizione, e senza prendersela direttamente con Putin, scaricano la responsabilità sui reclutatori. Chi invece non gode di popolarità, come il governatore di San Pietroburgo Aleksandr Beglov, che prima della mobilitazione aveva cercato di formare un battaglione di volontari da mandare in guerra, preferisce mostrarsi fedele, zelante, arruolare, riempire la città di Z e non ascoltare gli scricchiolii. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.