Yusuf al Quradawi è morto lunedì a 96 anni a Doha, in Qatar (foto LaPresse)

libertà vs jihad

È morto il predicatore al Qaradawi e il suo ricordo mostra il conflitto irrisolto dentro l'islam

Luca Gambardella

Legittimò gli attentati suicidi contro le donne e i bambini di Israele, ma ha conservato fino a oggi la fama di "moderato" e "innovatore". Difese le primavere arabe ma oggi sono i dittatori e i terroristi a commemorarlo

Hosni Mubarak si era dimesso da nemmeno una settimana, quando il leader religioso Yusuf al Qaradawi salì su un palco rivolgendosi alle oltre 200 mila persone raccolte in piazza Tahrir, l’epicentro delle proteste in Egitto. Con un discorso ispirato e dagli inediti toni progressisti, il chierico invitò la folla a restare unita, i musulmani con i cristiani, affinché preservasse e proteggesse la rivoluzione contro il regime. “Non permettete che nessuno ve la rubi”, scandì quel 18 febbraio del 2011. Fu forse sulla scia dell’entusiasmo di allora che finì in secondo piano chi fosse davvero al Qaradawi, la sua storia personale e il suo pensiero. E ora che è morto a Doha, in Qatar, lascia alle spalle la speranza tradita delle rivoluzioni arabe, cui invece sono sopravvissuti altrettanti regimi, più o meno sanguinari. 

 

Il nome di Qaradawi è legato a un  paradosso: fu il primo grande leader religioso che a partire dal 2001 approvò la pratica degli attacchi suicidi e che, ciononostante, è ricordato ancora oggi come una delle voci più moderate, se non addirittura innovative, nell’interpretazione dell’islam. Una “stella pop”, che negli anni 90 divenne il volto della prima grande trasmissione televisiva intitolata “Vita e sharia”, che spiegava ogni giorno sull’emittente panaraba al Jazeera come condurre un’esistenza in linea con i dettami della legge islamica. Era la prima volta che un chierico e i suoi fedeli entravano in contatto, filtrati da un mezzo di comunicazione di massa. Un evento sublimato anni dopo con internet – usato e abusato dai gruppi terroristi – e destinato a stravolgere la conoscenza del Corano, spingendola fino agli angoli più periferici del mondo musulmano. Prima ancora della televisione, fu con un libro che Qaradawi si affermò come voce moderata. Si intitolava “Al Halal wal Haram fi al Islam”, che significa “Cosa è consentito e cosa no nell’islam” e fu contestato dai più tradizionalisti perché considerato troppo lassista nei giudizi e ancor più sfumato nelle sue interpretazioni della legge islamica. 

 

Ma poi venne la stagione del terrorismo e il nome di Qaradawi finì per rimanere indissolubilmente legato a essa, alle sue fatwe che considerarono legittimi gli attacchi suicidi dei palestinesi contro gli israeliani. Fino ad allora, l’islam più tradizionalista li vietava perché il Corano considerava l’atto di togliersi la vita un peccato. Ma l’interpretazione di Qaradawi fu che esisteva una differenza sostanziale fra suicidarsi per uno stato depressivo e farlo in nome di qualcosa di più elevato, come la propria libertà. Due anni dopo quelle parole, nel 2003, rilanciò legittimando gli attentati suicidi contro i civili americani in Iraq, per il semplice motivo che “ogni americano in Iraq è un combattente”. Sfidò ogni suo detrattore, anche i più illustri, dall'imam della Mecca al rettore dell’Università di al Azhar: “Come può il capo di al Azhar incriminare i mujahideen che combattono contro gli aggressori? E come può considerare questi aggressori come dei civili innocenti?”. Nell’interpretazione di Qaradawi, nemmeno uccidere donne e bambini era da stigmatizzare. “Alcuni bambini e alcune donne potrebbero essere colpiti in simili operazioni. Non in modo deliberato, ma comunque dobbiamo capire che nella società israeliana tutti sono militari, uomini e donne, e non possiamo dire se le perdite siano civili innocenti”. 

 

Non senza un eccesso di indulgenza, Hassan Hassan, editorialista del magazine New Lines, ha tratteggiato addirittura un intrinseco significato “liberale” nella reinterpretazione della legge islamica da parte di Qaradawi. Secondo Hassan, il chierico usava canoni nuovi e li trasmetteva attraverso canali di enorme portata come la televisione. Era una rivoluzione, seppure a tinte fosche e ambigue. Ma come accadde poi con le primavere arabe, furono proprio gli integralisti e i radicali a sfruttare queste ambiguità  portando a transizioni ben poco democratiche. Come prevedibile, finì che i gruppi terroristici usarono le parole di Qaradawi “il moderato” per legittimare i propri attentati. 

 

Eppure desta perplessità la clemenza che ancora oggi, all’indomani della sua morte, rinnovano alcuni commentatori arabi. Su Middle East Eye, Mohammed Fadel, dell’Università di Toronto, ha scritto che “Qaradawi sperava che il marchio del suo islamismo riavvicinasse musulmani e non musulmani per difendere un futuro non autocratico”. Oggi però, oltre alle condoglianze espresse dalle alte cariche del Qatar e da altri esponenti della Fratellanza musulmana, spiccano i messaggi di cordoglio di personaggi ed entità dalle visioni molto meno “liberali”: quello di Hamas, quello del regime dei talebani e quello del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ieri ha ricordato il “più bell’esempio di come un musulmano dovrebbe vivere”.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.