(foto EPA)

Come vivono i giovani talebani, così diversi da quelli anziani

Federico Lodoli e Carlo Gabriele Tribbioli

“Faccio il talebano e non credo in Dio”, ci dice Hayat. Le motivazioni dei ragazzi del regime afghano

Kabul. A Kabul i talebani sono ovunque. Ci sono quelli prepotenti che si godono il potere e quelli che perdono tempo in giro; quelli che stanno ai check point armati fino ai denti e quelli che dormono sopra ai blindati, senza scarpe, con le gambe sulla mitragliatrice. Sono quasi tutti giovani sotto i trent’anni. E, soprattutto, al di là dell’immagine monolitica, sono tutti diversi. Ci sono quelli che ci credono, i duri e puri. Provengono in larga parte dal sud, sono cresciuti in una cultura tradizionale e istruiti nelle scuole coraniche. Ma c’è anche chi è diventato talebano per convenienza o per avere un lavoro. C’è poi il talebano beatnik o l’intellettuale che addirittura si dichiara senza Dio. 

Agha Gul ha 28 anni e viene da un villaggio vicino a Jalalabad. Ci avvicina mentre facciamo delle riprese al Mausoleo di re Nadir Shar. E’ insieme ad altri sette colleghi. Si presentano con aria minacciosa ma dopo qualche minuto Agha Gul ci invita a visitare le tombe reali custodite nei sotterranei. Sotto la barba scura e la divisa da soldato, trapela timidezza. Prima di unirsi ai talebani faceva l’operaio. Gli chiediamo perché lo abbia fatto: “Grazie a Dio sono musulmano. Per noi difendere l’islam è un dovere. Per farlo siamo pronti al martirio.” In questi venti anni, secondo Agha Gul, non è stato costruito nulla: “Ciò che qui era bello lo hanno distrutto. Guarda com’è adesso. Tutto in rovina”. Interviene un altro talebano alle sue spalle. I tratti del viso sono più duri, i toni più aggressivi: “Volevano corrompere la società, diffondendo la sessualità”. Ci chiede a quale religione apparteniamo. Cristiana. “Se vi uccido adesso allora andate lì?”, dice lui, puntando il dito verso l’alto. 

Dopo la conquista di Kabul, i giovani del movimento si sono moltiplicati. La rivoluzione ha bisogno di braccia e lo stomaco sta meglio se pieno. E’ questo il ragionamento che ha fatto Monawar, ventitreenne di Wardak. Si è unito ai talebani quando avanzavano verso la capitale. “Arruolarsi mi dava la possibilità di inserirmi in società.” Lo ha fatto per avere il posto fisso, Monawar. Adesso lavora ai check point. “Sono turni di tre ore al giorno. Siamo sempre in due o tre. Passiamo il tempo a fare controlli e bere il tè”. Gli chiedo se la paga è buona: “Sono tra gli 8.000 e i 13.000 afghani”, tra i 120 e i 150 dollari al mese. “Non è molto ma almeno posso dare da mangiare a mia figlia”. Ma nella causa talebana ci credi o no? Sorride, prima di rispondere che per lui è importante il paese. “Voglio dare il mio contributo e questo è un modo di farlo”. O almeno di guadagnarsi la giornata. 
Per le strade di Kabul i giovani talebani sfoggiano un’estetica eterogenea. A quelli come Agha Gul, in divisa semplice e con vecchi fucili, se ne alternano altri con armi automatiche sottratte agli eserciti fuggiti un anno fa. Ma è la milizia in borghese quella che colpisce di più. Hanno l’aria sofisticata. Vestono gli abiti tradizionali con vezzo e li abbinano ai cappellini kandahriani, da cui scendono lunghi capelli lisci o ciuffi di ricci sulla fronte. I capi sono adornati con sciarpe legate a turbante o appena posate come veli che cadono sulle spalle. E poi i colori. Alcuni scuri, profondi, persiani. A volte con gli occhi di ghiaccio. Altri con i capelli biondi o rossi. Non è raro vedere i volti truccati con high-liner agli occhi e fard arancione. Infine, smalto sulle unghie. Spesso pattugliano la città in sella alle moto. Su ognuna siedono due o tre di loro. Sfrecciano tra i palazzi distrutti con i kalashnikov in spalla, i drappi pendenti delle vesti, accompagnati dal taranà: una musica di sola voce, l’unica permessa dai talebani, con strofe ripetute ossessivamente e distorte da effetti elettronici. L’effetto è un suono che risulta al contempo antico e ipercontemporaneo: ti proiettano subito dentro un mondo post apocalittico centro-asiatico preda di bande. Alcuni provano a comportarsi da gangster ma, dopo che ti avvicinano, bastano due battute per farli aprire. E subito ti chiedono il numero whatsapp. Si diventa presto amici, insomma.

Come con Hayat. che incontriamo per caso in strada. E’ alto, i capelli lisci e neri. Il volto disegnato da una barba rada. Ci vede e si presenta: “Faccio il talebano e non credo in Dio”. Non capiamo. Lui scoppia in una risata. “Sì, lui di lavoro fa il talebano”, aggiunge il suo collega Zhwandoon. Hai detto che non credi in Dio? Hayat ci chiede se conosciamo “Così parlò Zarathustra” di Friedrich Nietzsche. “Uno dei miei libri preferiti. Sai che Zarathustra ha vissuto qui in Afghanistan? La sua era una grande religione”. Nel frattempo, Zhwandoon cerca la nostra attenzione. Dice che sono talebani strambi, tipo beatnik: “Se io mi vedessi per strada direi: ma chi è quello?”. Aggiunge che tra di loro ci sono anche quelli che fumano l’oppio e bevono alcool. “Io non bevo né fumo”, precisa Hayat, seccato. Ci chiede di parlare di filosofia. Accettiamo, salutiamo Zhwandon e andiamo a bere un tè. Hayat ci racconta che a sedici anni era depresso per come andavano le cose, per la guerra e tutto il resto. Voleva suicidarsi “ma non come un terrorista”, aggiunge ridendo. “Suicidarmi e basta. E’ allora che ho iniziato a leggere.” Cosa? “Poesia afghana, poi Shakespeare, Dante. Ma a casa dovevo nascondere i libri”. Come fa a piacerti Nietzsche ed essere talebano? La morte di Dio e la sharia? “L’interpretazione giusta della morte di Dio è quella che dà Heidegger. Lo conosci? La morte di Dio è nel cuore. Nietzsche credeva in Dio ma ha visto dove andava il mondo. Ci ha messo in guardia”. II suo filosofo preferito però è Kant. E qui Hayat tenta un’acrobazia. “Se chiedi a un talebano saggio di parlarti del rapporto tra Dio e l’uomo, ti dirà che l’uomo non può oltrepassare i limiti dell’esperienza. Come Kant”. Gli facciamo notare che Kant non avrebbe approvato le posizioni dei talebani. “Neanche a me piacciono i fondamentalisti. Sono preoccupato per la cultura e per la chiusura delle scuole femminili”. Ma perché sei talebano allora? “Molti di loro stanno cambiando. Hanno visto quello che è successo a Kabul negli ultimi anni. Sono rimasti colpiti, ma non possono ammetterlo”. Fatico a crederlo. “Noi giovani siamo diversi da sempre perché siamo cresciuti nel cambiamento. Questo ai leader non piace ma sanno che non possono farci niente”.

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