Kim Jong Un, al centro, durante un lancio di prova di un missile balistico intercontinentale (Agenzia centrale dell'informazione della Corea del nord)

Dall'Ucraina alla Corea

Così i missili e il regime di Kim Jong Un infiammano il 38° parallelo

Giulia Pompili

Il leader nordcoreano ha dichiarato la vittoria contro il Covid e presto potrebbe tornare ai suoi test atomici. E’ la wild card di Cina e Russia, la miccia della prossima possibile crisi internazionale. Oggi iniziano le esercitazioni congiunte Washington-Seul

In questi giorni in Corea del nord c’è parecchio da festeggiare. Il leader Kim Jong Un ha annunciato la “vittoria” della popolazione contro il virus Sars-Cov-2, che secondo le autorità nordcoreane ha circolato nel paese soltanto per tre mesi. La parola “vittoria”, naturalmente, ha un significato preciso perché secondo la propaganda ufficiale a mandare il virus al Nord sono stati i nemici del Sud, che a questo punto risultano battuti nel loro tentativo di usare l’epidemia come un’arma. La leadership di Pyongyang deve poi festeggiare la riapertura dei canali di business con la Cina: secondo i dati dell’Amministrazione generale delle dogane cinesi analizzati da NkNews, a luglio la Corea del nord ha importato merci dalla Cina per un valore di 59,7 milioni di dollari, crescendo parecchio dai 19,3 milioni di dollari di giugno.

 

E allo stesso tempo le esportazioni sono passate da 2 milioni a 12 milioni di dollari: l’isolamento del paese più sanzionato del mondo, cioè la Corea del nord, aggravato dalla pandemia e dalla sospensione dei commerci globali, comincia ad allentarsi. E poi Kim ha festeggiato la sua amicizia con Vladimir Putin: sin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, Pyongyang ha sempre reso molto chiara la sua posizione a fianco del Cremlino. L’amicizia tra Corea del nord e Russia ha legami lontani, storici, anche se negli ultimi decenni Mosca aveva lasciato il posto di paese più influente su Pyongyang (soprattutto dal punto di vista economico) alla Cina. La guerra di Putin ha cambiato le cose, ha galvanizzato la tradizionale ideologia antioccidentale nordcoreana, ha rafforzato l’asse dei paesi uniti dall’antiamericanismo. 

 

Denis Pushilin, l’autoproclamato presidente dell’altrettanto autoproclamata Repubblica filorussa di Donetsk, nel Donbas ucraino occupato dai russi, una settimana fa ha scritto una lettera a Kim Jong Un: “La gente della regione del Donbas lotta oggi per riconquistare la libertà e la giustizia della storia, proprio come il popolo coreano ha fatto 77 anni fa”. Il 13 luglio scorso la Corea del nord è stato il terzo paese al mondo, dopo la Federazione russa e la Siria, a riconoscere le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk come indipendenti. Un gran bel gesto d’amicizia offerto a Mosca, tanto che subito dopo l’ambasciatore russo in Corea del nord, Alexander Matsegora, ha detto in un’intervista al quotidiano della Difesa russo, Izvestia, che Mosca è pronta ad assumere i lavoratori nordcoreani per ricostruire parte della regione del Donbas devastata dalla guerra.

 

Sarebbe un cambio di passo notevole, visto che dal dicembre del 2019 vigono delle sanzioni, imposte dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e quindi approvate anche dalla Russia, che vietano una delle forme di introiti maggiore per la Corea del nord: i lavoratori nordcoreani all’estero. Secondo i dati del governo americano, prima delle sanzioni e della pandemia, ogni anno la leadership di Pyongyang guadagnava circa cinquecento milioni di dollari dai suoi centomila lavoratori all’estero – di questi, cinquantamila in Cina e trentamila in Russia, soprattutto nell’area di Vladivostok. Era la leadership a guadagnarci perché i lavoratori nordcoreani all’estero, dei loro stipendi, possono trattenere soltanto una minima parte, il resto va alla patria. Poi però, dopo l’entrata in vigore delle misure punitive contro l’aggressività nordcoreana, gran parte di loro erano stati costretti a rimpatriare, mandati via anche dalla Russia. 

 

C’è solo una festività che viene festeggiata sopra e sotto il 38° parallelo, nella penisola coreana. Il 15 agosto per il Sud è il gwangbokjeol, che letteralmente significa “il giorno in cui è tornata la luce”. Al Nord si celebra il chogukhaebangui nal, il giorno “della liberazione della patria”. Entrambi, durante quello che per noi è Ferragosto, ricordano il giorno in cui i giapponesi si arresero e lasciarono la penisola coreana dopo decenni di occupazione. Il 15 agosto del 1945, rispettivamente a nove e sei giorni di distanza dall’attacco atomico americano su Hiroshima e Nagasaki, la radio giapponese trasmise un messaggio che cambiò la storia: l’imperatore Hirohito, che fino a quel momento era considerato una divinità dai giapponesi che non avevano mai potuto ascoltare la sua voce, parlò direttamente ai suoi cittadini. E disse che l’Impero giapponese si arrendeva, che non esisteva più, che le cose sarebbero state molto diverse da allora in avanti. Anche per il Giappone fu una liberazione, tanto che il 15 di agosto non è festa nazionale ma si ricordano i caduti, la fine di un’èra di guerre e devastazioni.

 

Anche quest’anno, nel giorno “della liberazione della patria”, la stampa nordcoreana ha celebrato il valore di quel momento di settantasette anni fa. Ma lo ha fatto con toni nuovamente bellicosi, quando di recente, al contrario, avevamo avvertito un certo grado di attenuazione e concentrazione sui problemi interni da parte di Pyongyang. Oltre alla celebrazione di Kim Il Sung, il nonno dell’attuale leader Kim Jong Un, che guidò la patria alla liberazione, il portavoce del “Comitato coreano sulle misure per la schiavitù sessuale delle vittime dell’esercito e della leva giapponese” (perfettamente in linea con la tradizione dei burocratici titoli gerarchici nordcoreani) ha pubblicato una dichiarazione sostenendo che il Giappone, “il paese sconfitto della Seconda guerra mondiale, non si è ancora liberato del sogno sfrenato di dominatore e leader dell’Asia.

 

Adesso il Giappone sta completando tutti i preparativi: dopo aver gettato le basi per trasformarsi in un gigante militare, fabbricando e diffondendo massicciamente la storiella della ‘minaccia nordcoreana’, sta cercando di rimuovere l’ultimo ostacolo alla sua reinvasione cercando di riformare l’ormai defunta ‘costituzione pacifista’”. E il riferimento è alla discussione, in corso a Tokyo sin dai tempi del defunto ex primo ministro Shinzo Abe, di riforma dell’articolo 9 della Costituzione giapponese, quello che impedisce al Giappone di avere un esercito regolare ma soltanto Forze di Autodifesa. Un possibilità, quella di normalizzare le Forze armate nipponiche, alla quale da sempre si oppone soprattutto la Cina – oltre che, va detto, i giapponesi, secondo i sondaggi che periodicamente danno un eventuale referendum sul tema affossato dai “no”. Due giorni dopo il giorno della liberazione della patria, la Corea del nord ha effettuato il test di due missili balistici, il primo dagli inizi di giugno. 

 

In questo nuovo mondo in cui i regimi autoritari mostrano sempre di più il loro volto aggressivo la Corea del nord rischia di essere una delle prossime crisi che la comunità internazionale sarà costretta ad affrontare. E’ finita l’epoca del commercio come priorità politica: è l’ideologia a guidare i rapporti tra paesi, in uno schema a blocchi che somiglia sempre di più a quello dell’epoca della Guerra fredda – solo che oggi non è più l’Unione sovietica la potenza che sfida l’America, ma la Cina. Molto è cambiato dopo che la Russia ha invaso l’Ucraina: i missili sulle città, i civili nei bunker e i carri armati nelle strade hanno stravolto l’Europa.

 

Ma anche in Asia è cambiato qualcosa questa estate. La scorsa settimana il Nikkei Asia, l’Economist asiatico in lingua inglese, ha elencato le zone più a rischio di conflitto: “Le recenti tensioni tra Cina e Taiwan hanno mostrato quanto i conflitti ‘congelati’ asiatici potrebbero diventare nuovamente caldi. Gli scontri che hanno bollito per lungo tempo e che potrebbero trasformarsi in conflitti tra grandi potenze”. Nell’elenco c’è naturalmente Taiwan, l’isola che la Cina rivendica come proprio territorio e che l’America (e non solo l’America, ormai) difende; c’è l’Afghanistan, un anno fa riconquistato dai talebani e in cerca di stabilità, ci sono le tensioni al confine tra India e Cina e quelle al confine tra India e Pakistan, nel Kashmir.

 

Poi ci sono tutte altre aree del Pacifico rivendicate dalla Cina, e la zona più calda, secondo il Nikkei, resta il Mar cinese orientale e le isole Senkaku (che Pechino chiama Diaoyu) amministrate dal Giappone: è da quelle parti, a un passo dai confini dell’isola di Taiwan, che la Cina potrebbe estendere le sue provocazioni e avvicinarsi a un vero conflitto con l’alleanza occidentale che si manifesta nel governo di Tokyo, unico membro del G7 (non a caso, durante le esercitazioni militari in risposta alla visita di Pelosi, Pechino ha eseguito il test di un missile balistico che è caduto per la prima volta nella Zona economica esclusiva giapponese, al largo della prefettura di Okinawa).

 

E poi c’è un conflitto potenziale che per lungo tempo abbiamo dichiarato impossibile, ma che torna nella sfera delle possibilità dopo la guerra in Ucraina: quello tra Corea del nord e Corea del sud. “Quattro anni fa, il leader nordcoreano Kim Jong Un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in si tennero per mano e si abbracciarono nella Zona demilitarizzata che separa i due paesi, in uno storico vertice che ha segnato il culmine della politica di apertura e distensione di Moon nei confronti dell’irascibile vicino settentrionale”, scrive il Nikkei. “Poi è arrivata la pandemia e un periodo di isolamento per il regime nordcoreano, durante il quale Pyongyang ha accresciuto diversi programmi militari. Secondo gli esperti, è probabile che la Corea del nord emerga più sicura di sé e più aggressiva rispetto al passato”.

 

La Sunshine policy, la politica di apertura al Nord che era stata la bandiera della presidenza democratica di Moon Jae-in, non ha dato i suoi frutti. E forse uno dei motivi è che a un certo punto dentro al progressivo cambiamento dei rapporti tra Seul e Pyongyang ci si infilò pure l’allora presidente americano Donald Trump. Che voleva risolvere la questione nordcoreana in fretta, con risultati concreti: dopo il primo storico summit di Singapore, il 12 giugno del 2018, ne seguirono altri due, entrambi piuttosto inconcludenti. E celebre fu il tentativo di Trump di mostrare alla Corea del nord e al suo leader i vantaggi di un’apertura al commercio globale e agli investimenti americani, con resort e centri commerciali e ricchezza capitalista, in cambio dell’abbandono del programma nucleare nordcoreano, che nonostante tutto resta il fondamentale strumento, per la leadership dei Kim, di difesa esterna e legittimità interna.

 

“La distanza fra le due parti apparve in tutta la sua chiarezza durante il secondo summit, che si svolse ad Hanoi, in Vietnam, nel febbraio del 2019”, scrivono Antonio Fiori, Marco Milani e Andrea Passeri in un volume appena uscito e fondamentale per capire l’Asia contemporanea, che si chiama “Asia. Storia, istituzioni e relazioni internazionali” (Le Monnier, 582 pagine, 54 euro). “Constatata l’impossibilità di giungere a un accordo, l’incontro fu chiuso addirittura prima di quando fosse stato previsto. Le conseguenze di tale fallimento diplomatico iniziarono ad arrivare nei mesi successivi e si estesero anche alle relazioni fra le due Coree, fra le quali il dialogo e la cooperazione che sembravano così ben avviati pochi mesi prima piombarono in una situazione di stallo”.

 

Secondo gli autori del volume – tra i più autorevoli sulle questioni asiatiche e specialmente coreane, anche a livello internazionale – nonostante i risultati mancati del summit di Hanoi, e il raffreddamento, poi diventato congelamento delle relazioni della Corea del nord con Washington e Seul, la situazione non è ancora tornata ai livelli di tensione degli anni precedenti, quando Trump minacciava “fire and fury”, fuoco e fiamme contro il “rocket man”, Kim Jong Un

 

Il problema è anche e soprattutto mediatico: con la fine dell’Amministrazione Trump e l’arrivo a Washington di Joe Biden, molto è cambiato anche nel racconto della Corea del nord. Perché Biden di fatto ha accantonato il problema nordcoreano, l’ha messo sotto al tappeto, in una nuova edizione della politica inaugurata da Barack Obama della cosiddetta “pazienza strategica”. Che vuol dire, più o meno: noi non ti daremo mai soddisfazione quando cerchi di attirare la nostra attenzione, siamo soltanto fermi nelle nostre punizioni economiche aspettando il momento in cui crollerai da sola.

 

Anche questa strategia, però, è stata un fallimento. Lo dicono la maggior parte degli esperti e degli osservatori, perché l’isolamento economico contro Pyongyang non ha funzionato – la Corea del nord è riuscita a diventare lo stesso una potenza nucleare e missilistica creando uno schema perfetto di elusione delle sanzioni e sfruttando l’amicizia con altri paesi affini – e il regime della dinastia dei Kim non è mai crollato. C’è un altro fattore fondamentale, poi, che rischia di far diventare la Corea del nord l’ennesima crisi incontrollata tra le mani della Casa Bianca di Biden: fino al 2019, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite Cina e Russia erano sulla stessa linea americana nel sanzionare la Corea del nord.

 

Il presidente Xi Jinping e il suo omologo russo Vladimir Putin probabilmente non tolleravano più le attività (soprattutto quelle nucleari) del leader Kim. Il 27 maggio scorso, per la prima volta dopo molto tempo, Mosca e Pechino hanno invece usato il loro potere di veto per bloccare ulteriori sanzioni proposte dall’America al Consiglio di sicurezza e probabilmente mandare un messaggio, tirare una riga, mettere un confine: da adesso in poi Pyongyang torna a essere un affare soltanto nostro, siamo noi contro di voi. 

 

“Dovrebbe chiudere la bocca”, ha scritto in un editoriale sul Rodong Sinmun, il quotidiano ufficiale del Comitato centrale del Partito dei lavoratori di Corea, la potente sorella di Kim Jong Un, Kim Yo Jong, ormai arrivata ai vertici della leadership dove è responsabile dei rapporti intercoreani. Chi “dovrebbe chiudere la bocca”, secondo lei, è Yoon Suk-yeol, che ha appena scavallato i suoi cento giorni da presidente della Corea del sud. E’ Yoon l’altra variabile che potrebbe aumentare le tensioni nella penisola. Classe 1960, ex procuratore generale, Yoon si è preso la candidatura del principale partito dei conservatori, il People Power Party, da outsider, senza una vera preparazione politica.

 

A marzo ha vinto le elezioni contro il candidato democratico Lee Jae-myung grazie ai voti di protesta, a una campagna elettorale infuocata, furibonda. Nell’ultimo periodo di presidenza di Moon Jae-in, il Partito democratico sudcoreano era stato accusato di essere troppo tenero con la Corea del nord, di aver fatto di tutto per riaprire il dialogo dopo i fallimenti del 2019, anche a costo di mettere da parte le priorità di politica interna. I populisti di destra avevano intercettato il messaggio, e durante la campagna elettorale Yoon si era spinto fino a dire di essere favorevole all’idea di un first strike, di un bombardamento diretto della Corea del nord in caso di pericolo per il Sud. Poi, una volta eletto, i toni si sono un po’ attenuati – il ministero dell’Unificazione, a Seul, è uno dei più potenti, è quello che Trump chiamerebbe il “deep state”, ma segue necessariamente la ciclicità della politica: la destra al governo vuol dire approccio duro contro Pyongyang, democratici al governo vuol dire apertura e dialogo. 

 

Nel suo primo discorso del 15 agosto, il giorno in cui “è tornata la luce”, Yoon Suk-yeol ha usato parole e toni particolarmente concilianti con il Nord: ha proposto un “audace” pacchetto di assistenza economica alla Corea del nord se offrisse garanzie sul progressivo abbandono del suo programma di armi nucleari e missili balistici. Ma certe offerte di aiuti su larga scala per il settore alimentare, sanitario e per la modernizzazione delle infrastrutture nordcoreane sono state già fatte in passato, sempre e rigorosamente rifiutate da Pyongyang. Deve chiudere la bocca, ha scritto sul giornale Kim Yo Jong riferendosi alle offerte di Yoon: “Non so quali altre sfacciate idee verranno a proporci in futuro, ma voglio chiarire che non le affronteremo mai”.

 

L’ufficio presidenziale di Seul, il giorno dopo la pubblicazione dell’editoriale, ha diffuso un comunicato molto offeso per il fatto che Kim abbia chiamato il presidente sudcoreano per nome: “Riteniamo deplorevole che la Corea del nord continui a usare un linguaggio rude, menzionando il presidente per nome, e continui a esprimere le sue intenzioni di sviluppo nucleare distorcendo il nostro ‘audace piano’”. 

 

Il vero motivo di preoccupazione, però, è altrove. Yoon ha infatti riattivato le esercitazioni militari congiunte tra Corea del sud e America che fanno imbestialire la Corea del nord e che Trump, durante il periodo di apertura al dialogo con Pyongyang, aveva sospeso come da richiesta nordcoreana. Le tradizionali Ulchi Freedom Shield si svolgeranno dal 22 agosto al 1° settembre in Corea del sud e coinvolgeranno aerei, navi da guerra, carri armati e decine di migliaia di truppe. Sono uno show di forza da parte di Seul e Washington al quale, per la prima volta dopo parecchio tempo, si affiancano anche esercizi con il Giappone per un addestramento specifico alle Hawaii che riguarda l’intercettazione e il recupero di missili. Alle esercitazioni della coalizione, di solito, si accompagna sempre una “risposta” nordcoreana. Sono mesi ormai che si parla di un possibile test nucleare da parte di Pyongyang, che sarebbe il settimo in totale, e il primo sin dal 2017

 

Un nuovo report del panel di esperti delle Nazioni unite ha confermato il sospetto che circola da tempo tra gli studiosi di faccende nordcoreane, che attraverso l’analisi delle immagini satellitari hanno notato movimento nei siti nucleari del paese. Il panel di esperti, nel report non ancora pubblicato e visionato dall’Associated press, cita le informazioni di intelligence di due paesi membri dell’Onu che hanno confermato: già all’inizio di giugno i preparativi per un test nucleare erano alla “fase finale”. A marzo sarebbero ricominciati i lavori di scavo all’ingresso del tunnel numero 3 del sito nucleare di Punggye-ri, e sarebbero stati ricostruiti “gli edifici di supporto originariamente smantellati nel maggio 2018”, dopo gli accordi con Seul e Washington. Allo stesso tempo, le immagini satellitari dello scorso settembre mostrano che la Corea del nord ha ampliato l’impianto nucleare di Yongbyon dedicato all’arricchimento dell’uranio, e sembra stia aumentando la produzione dell’elemento fondamentale per la bomba atomica. 

 

Un test atomico da parte della Corea del nord, in questa delicatissima fase internazionale, sarebbe a dir poco destabilizzante. In un comunicato congiunto di qualche giorno fa, Washington e Seul hanno detto che in caso di esperimento nucleare “si impegneranno in una risposta bilaterale forte e decisa, che comprenderà la possibilità di dispiegare mezzi strategici statunitensi nella regione”. Una risposta che potrebbe non piacere alla Cina. La definizione di mezzi strategici è ampia, ma quasi sempre significa: armi nucleari.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.