Guerre d'attrito. Conflitti di confine. Come funziona il modello delle due Coree

72 anni fa iniziava "l'operazione militare speciale" nordcoreana. Le lezioni da imparare

Giulia Pompili

Se dovessimo fare un paragone con l’odierna guerra in Ucraina, spiega al Foglio l’accademico americano John Delury, storico della Yonsei University di Seul, "potrebbe essere quello di un periodo prolungato di ‘colloqui mentre ci sono combattimenti". "Anche Kim Il Sung credeva che i sudcoreani avrebbero accolto a braccia aperte l’esercito nordcoreano", dice l’esperto Benjamin R. Young

Nel museo della guerra sudcoreano c’è una stanza che riproduce suoni e immagini di quella notte. Gli aerei che arrivano da nord, le bombe, le esplosioni, le grida: un’esperienza immersiva che serve a ricordare ai visitatori di oggi lo choc di una guerra che iniziò all’improvviso, inaspettata. L’invasione cominciò esattamente settantadue anni fa, il 25 giugno del 1950, attorno alle quattro del mattino. Vennero attaccate prima le basi militari sudcoreane sul confine del 38° parallelo, e poche ore dopo i nordcoreani arrivarono nella capitale del Sud, Seul. Ancora oggi si discute sul termine invasione: dal punto di vista della Corea del nord, l’azione militare era un’operazione volta alla riunificazione. Ma qui serve fare un iniziale passo indietro, ed evidenziare la prima differenza con la guerra d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, e le lezioni che possiamo trarre dal passato. 

 

Quando quella domenica mattina la guerra cominciò, la penisola coreana era stata divisa artificialmente soltanto cinque anni prima, nel 1945, dopo la fine dell’occupazione giapponese. L’Unione sovietica aveva liberato il nord, e l’America era intervenuta dopo aver capito che Mosca avrebbe potuto occupare l’intera penisola.


Si stabilì una commissione  America-Urss per cercare una soluzione alla divisione, che avrebbe dovuto essere solo temporanea. Le potenze in campo avrebbero dovuto mettersi d’accordo per un’amministrazione fiduciaria sotto il controllo dell’Onu e per rendere l’intera penisola indipendente entro 5 anni. Falliti i negoziati, nel 1948 il generale Kim Il Sung, che aveva combattuto in Cina contro i giapponesi e poi si era unito all’Armata rossa sovietica, venne nominato da Mosca presidente della neonata Repubblica popolare democratica di Corea. Al Sud si tennero le prime elezioni generali, e vinse Syngman Rhee, un uomo considerato vicino all’Amministrazione americana e al generale Douglas MacArthur, allora Comandante supremo delle forze alleate nel Pacifico. Sia il Nord sia il Sud vedevano la divisione come  provvisoria, la Corea era una sola. 

 

La Guerra di Corea è spesso definita “la guerra dimenticata”. Dall’inizio dell’invasione alla firma dell’armistizio – ancora oggi, 69 anni dopo, non ancora trasformato in un trattato di pace – passarono tre anni, ma la parte del conflitto più cruenta e sanguinosa durò pochi mesi. Nell’agosto del 1950 le truppe di Kim erano arrivate facilmente fino all’estremo sud. Poi nel conflitto entrarono gli americani (sotto il Comando dell’Onu in Corea guidato dal generale MacArthur). In tre mesi le truppe alleate risalirono la penisola, arrivando fino al confine nord con la Cina. A quel punto a sostegno della Corea del nord arrivò l’armata cinese. Nel marzo del 1951 la situazione tornò più o meno identica a prima dell’invasione, con la penisola divisa sul 38° parallelo. Il conflitto andò avanti, ma a bassa intensità e circoscritto alle aree di confine. Se dovessimo fare un paragone con l’odierna guerra in Ucraina, spiega al Foglio l’accademico americano John Delury, storico della Yonsei University di Seul, “potrebbe essere quello di un periodo prolungato di ‘colloqui mentre ci sono combattimenti’. Questa condizione non è rara nella storia, ma la guerra di Corea rappresenta un caso da manuale”. “I negoziati per l’armistizio furono un processo complicato e contorto, pieno di tattiche di stallo e sotterfugi da entrambe le parti”, spiega Delury. L’evento chiave che permise di far avanzare i negoziati, secondo gli storici, “fu la morte del leader sovietico Stalin nel marzo 1953. Ciò spianò la strada ai cinesi per un compromesso sulla spinosa questione – o almeno, su quella che era vista come tale – del rimpatrio dei prigionieri di guerra. Nel frattempo, gli Stati Uniti avevano perso le speranze di risolvere la questione sul campo di battaglia, se non usando le armi atomiche, prese seriamente in considerazione  in varie fasi. E  quella guerra  era diventata impopolare a livello nazionale”. C’è poi un’altra differenza, spiega il docente: “Il leader sudcoreano dell’epoca, Syngman Rhee, non aveva il carisma e il carattere politico di  Zelensky. Rhee non ha mai avuto molto controllo sul corso della guerra o dei negoziati: erano nelle mani degli americani”.  Allo stesso modo, anche se le armi che stanno usando gli ucraini per difendersi sono di altri paesi, sono loro stessi a combattere. Per i coreani non fu così.


C’è poi un’altra differenza fondamentale che riguarda l’assetto del Consiglio di sicurezza dell’Onu: negli anni Cinquanta sedeva al tavolo la Repubblica di Cina (cioè Taiwan), e i sovietici boicottavano il Consiglio in solidarietà con la Cina comunista: “Il delegato russo non era presente nel giugno 1950 per esercitare il suo diritto di veto quando il Consiglio di sicurezza autorizzò l’azione militare contro i nordcoreani, concedendo agli Stati Uniti l’autorità del cosiddetto Comando dell’Onu”, dice Delury. Oggi al Consiglio di sicurezza siedono sia la Russia sia la Cina, che possono esercitare il loro diritto di veto. “L’invasione russa dell’Ucraina è una guerra di ambizioni imperialiste da parte di un despota che vuole far rivivere un vecchio impero”, dice al Foglio l’esperto Benjamin R. Young della Vcu Wilder School. “Ma ci sono delle similitudini: Kim Il Sung credeva che i sudcoreani avrebbero accolto a braccia aperte l’esercito nordcoreano. E anche  Putin pensava che gli ucraini avrebbero fatto lo stesso con i militari russi. Credo che questo dimostri quanto i dittatori siano isolati e deliranti”. 


Dal 1953 in poi, la situazione delle due Coree è rimasta cristallizzata. La Zona demilitarizzata, la striscia di terra che divide il Nord dal Sud, lunga 250 chilometri e larga circa quattro, è sempre la stessa, controllata dal comando Onu-americano e sudcoreano congiunto e dalle autorità nordcoreane che rispettano le regole che si erano dati all’epoca sul numero di soldati e di mezzi presenti, sulle attività possibili nell’area (anche turistiche) e sui due “villaggi della pace”, gli unici presenti e abitati da civili all’interno della Zona demilitarizzata. Tutto fu deciso nell’armistizio sancito il 27 luglio del 1953, ancora oggi in vigore, che fu firmato  da Onu, Cina e Corea del nord, ma non dalla Corea del sud di Rhee, che non accettò quella che  considerava una “resa alla divisione”.  


 
 Da settant’anni la situazione tra le Coree è rimasta pressoché identica, e i periodi di apertura e dialogo sono intervallati da periodi di crisi e provocazioni. Il complesso industriale congiunto di Kaesong, in territorio nordcoreano subito oltre il confine, costruito con l’aiuto delle aziende sudcoreane e aperto nel 2002, è stato chiuso nel 2016 dopo il test nucleare di Pyongyang. Nella Zona demilitarizzata ci sono stati spesso incidenti, e soltanto nel 2018, dopo gli accordi tra Kim Jong Un e Moon Jae-in, sono iniziate le operazioni per bonificare l'area dalle mine antiuomo e sono stati spenti gli altoparlanti di propaganda. Poi di nuovo la crisi: nel giugno 2020 Pyongyang ha fatto saltare in aria il liason office costruito due anni prima nell’area per facilitare i colloqui tra Nord e Sud. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.