Foto di Ansa 

scena polarizzata

Dopo la disfatta di Cheney, Trump è sempre più vicino alle elezioni del 2024

Stefano Pistolini

In questi giorni si sta decidendo del futuro politico dei repubblicani in America. O insieme all'ex presidente, supportato dalla base ma su cui si scagliano i tribunali e l'Fbi, o contro di lui

Come accade periodicamente su una costa qualsiasi della Florida, nello scenario politico americano si va generando la tempesta perfetta, quella che potrebbe scuoterne alle radici la società con una virulenza inedita. Gli esiti delle primarie di queste ore, a cominciare dalla disfatta di Liz Cheney nella corsa al seggio del Wyoming in cui è stata travolta dall’avversaria filotrumpiana Harriet Hageman, confermano il regolamento di conti in corso attorno alla figura dell’ex presidente, sempre più probabile candidato repubblicano alla corsa 2024 per la Casa Bianca. Chi ha tradito – 8 dei 10 repubblicani che diedero via libera al tentativo di impeachment – chi non ha giurato fedeltà, chi, come la Cheney, ha vestito i panni dell’inquisitrice di Trump nella Commissione che prova a chiarirne il ruolo nei fatti del 6 gennaio 2021 – viene spazzato via dalla furia propagandistica della centrale-Trump, tornata in piena attività: è “con Trump” o “contro di lui”, senza mezze misure e a costo di chiudere anzitempo il proprio percorso politico.

 

Non sono ammesse figure critiche, sia avvisato Ron DeSantis, il governatore della Florida che a questo punto della definizione del quadro appare come il suo più serio concorrente a una nomination repubblicana e che da tempo ha modificato le proprie posizioni nei confronti di colui che pure lo allevò a propria immagine e somiglianza. Il modo in cui un’avvocatessa con uno scarso curriculum politico come la Hageman ha spazzato via una figura rappresentativa, ricca di implicazioni culturale e dotata di pedigree politico di prim’ordine come Liz Cheney, è esemplare: il trumpismo da tempo è un partito a sé, ben più elementare e circoscritto del conservatorismo americano, in fondo definito nella laconicità nervosa degli slogan con cui il fondatore arringava i sostenitori dalla tribuna di Twitter (sembra passata un’eternità - ma il quadro, nel corso della fase di sospensione coincisa con la presidenza-Biden, si è soltanto estremizzato).

 

L’America non ha finito con Trump e con la relazione identitaria (o di repulsione –ormai i sentimenti non contemplano stadi intermedi) con l’uomo che ha avuto la forza di sovvertire il senso stesso della presidenza, trasformandola da strumento di equilibrio, in emblema della partigianeria. Nel Wyoming Trump ha indicato Hageman e i due terzi degli aventi diritto hanno votato per lei, ma soprattutto per ciò che incarna, ovvero la disciplinata adesione al verbo. “Non dobbiamo abbandonare la verità, dobbiamo restare una nazione libera” ha invocato la Cheney concedendo la vittoria: un grido di dolore che ha il sapore dell’impotenza, e che risuonerà come un epitaffio alle orecchie di chi è alla ricerca del posizionamento che gli garantisca un futuro politico. Trump non farà prigionieri, la sua è una strategia a valanga, che generi una forza popolare centripeta, o che almeno ne metta in scena la rappresentazione.

 

È l’unica strada tramite la quale può pensare di eliminare dal proprio cammino i reali ostacoli che possono impedirgli il ritorno, ovvero i procedimenti che l’accerchiano nella morsa con cui gli avversari tentano d’immobilizzarlo, nelle aule del tribunale di New York, nelle sedute plenarie della Commissione a Washington, nei raid dell’Fbi lanciati dal dipartimento di giustizia. Trump risponde con il vittimismo e con l’appello alla mobilitazione contro i distruttori di quell’America che non può fare a meno di lui, perché è dalla base, dalla volontà popolare che gli è stato concesso il mandato.

 

È questo lo scenario da incubo che si va definendo: un Trump che a pieno regime invoca il diritto a governare un popolo che lo vuole e l’altra America che aziona ogni meccanismo possibile per fermarlo. Una prospettiva di disordine generale, la cui misura si esprimerebbe attraverso l’intensità della chiamata alle armi pronunciata da Trump. A meno che. A meno che la politica nel senso classico del termine trovi modo e interpreti per prevalere. Che si configuri un patto, sotto forma di un salvacondotto giudiziario per Trump in cambio del suo defilarsi dalla prima linea. Un delicato (e tutt’altro che scontato) armistizio che troverebbe sostegno bipartisan e profilerebbe, se non altro, la soluzione anagrafica: un Trump ultraottantenne potrebbe optare per il golf e altri intrighi. E l’America potrebbe cominciare a riflettere sull’uragano appena passato.

Di più su questi argomenti: