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Gli stati del No. Alle origini della schiavitù in America

Marco Ballestracci

Joe Biden punta il dito contro il “razzismo sistemico” negli Stati Uniti: la storia di un fenomeno radicato nella cultura d'oltreoceano

Per molti Henry Morton Stanley è stato un celebre esploratore inglese. In realtà, a causa della fuga dalla sua difficilissima infanzia gallese, appartiene molto di più agli Stati Uniti d’America che all’Inghilterra, anche se, lo sanno tutti, la sua vita è stata consacrata all’Africa. L’approccio di Mr. Stanley alle grandi esplorazioni è sempre stato legato ai fiumi, d’altro canto il Nilo e, ancor più, il Congo continuano ancora a essere strettamente associati a lui. Ai giorni nostri la sua abilità nell’esplorare il vero cuore d’un continente potrebbe essere molto utile, sia per la sua attitudine a percorrere i grandi fiumi, sia per la conoscenza approfondita degli Stati Uniti d’America, che aveva percorso in lungo e in largo. Perché per raggiungere il vero centro nevralgico degli Stati Uniti odierni è necessaria la curiosità d’un esploratore, che abbia il coraggio di oltrepassare il giusto, ma semplice concetto che “non esiste un’unica immagine dell’America. Ogni luogo che si raggiunge è un’America differente”.

 

E’ noto a tutti che il 25 maggio 2020, a Minneapolis, è stato ucciso George Floyd nel modo testimoniato dal celebre video. Il primo giugno 2021 Joe Biden è stato il primo presidente americano a ricordare e a commemorare, cento anni dopo, la strage di Tulsa, in Oklahoma, in cui i bianchi rasero al suolo il quartiere nero  di Greenwood.

 

Una corretta esplorazione esula dalla mera criminalità in cui è caduto, per esempio, l'agente Derek Chauvin, l'omicida di George Floyd

 

In quell’occasione Biden dal palco disse: “Nel centenario del massacro di Tulsa, invito tutti gli americani a riflettere sulle radici profonde del terrore razziale nel nostro paese e li esorto a lavorare per sradicare il razzismo sistemico che ancora esiste”. Il 4 aprile 2022 Patrick Lyoya, a Grand Rapids, nel Michigan, è stato ucciso da un poliziotto nella colluttazione seguita a un controllo di documenti. Anche questo omicidio, come quello di Floyd, è stato testimoniato da un video piuttosto sconvolgente.
Cosa continua ad accadere negli Stati Uniti per ciò che concerne la questione razziale, 157 anni dopo la ratifica del XIII emendamento della Costituzione americana (“Non esisteranno negli Stati e in nessun altro luogo sottoposto alla loro giurisdizione né la schiavitù, ne l’involontaria servitù, tranne nei casi di pena stabiliti da una corte di giustizia”)? La risposta sta proprio in quello che Biden, a Tulsa, ha chiamato “razzismo sistemico”. Cosa sia concettualmente il razzismo sistemico è argomento piuttosto arzigogolato da spiegare. Sono molto più pratici ed efficaci degli esempi reali che, però, devono necessariamente esulare, per una corretta esplorazione, dalla mera criminalità in cui è ricaduto, per esempio, l’agente Derek Chauvin, l’omicida di George Floyd, condannato a 22 anni di carcere dal giudice Peter Cahill di Minneapolis.

 

Se, per esempio, si è interessati ai luoghi simbolici della cultura afroamericana si può intuire il significato di “razzismo sistemico” recandosi a Selma, in Alabama, entrando in città dal celebre Edmund Pettus Bridge. Sopra il ponte sul fiume Alabama, nel marzo del 1965, transitarono in marcia i sostenitori della Dallas (che è la contea in cui si trova Selma) County Voters League. Le marce erano il modo per denunciare il fatto che, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, la possibilità di esercitare il diritto di voto era riservata a un’esiguissima minoranza, si parlava dell’uno per cento, delle persone di colore. Durante l’attraversamento del ponte, per due volte, la marcia venne respinta dalla polizia, poi intervenne il presidente Lyndon Johnson, sostenuto dalla Corte suprema, che affermò che il diritto di “appellarsi al governo per evidenziare delle ingiustizie anche attraverso una marcia sulle strade pubbliche” era uno dei diritti tutelati dal I emendamento della Costituzione. Così, di fronte al rifiuto di collaborare del governatore dell’Alabama, George Wallace, il presidente inviò a Selma la Guardia nazionale. Con la protezione della Guardia il 21 marzo 1965 la marcia, guidata dal reverendo King, partì dalla Brown Chapel AME Church, la chiesa metodista di Selma, oltrepassò il ponte e prese la direzione di Montgomery, dove giunse quattro giorni dopo. Dalla “Selma to Montgomery March” scaturì cinque mesi dopo il Voting Rights Act, che impedisce la discriminazione su base razziale del diritto di voto. 

 

A quarant’anni di distanza, nel 2005, un viaggiatore italiano aveva oltrepassato il Pettus Bridge e, immediatamente, si era ritrovato nel centro della cittadina. L’uso del gps non era affatto diffuso, perciò l’unico modo per scovare l’emblematica Brown Chapel era chiedere informazioni ai passanti. “Scusi signora, sto cercando una chiesa qui a Selma”. La signora bianca e bionda sulla cinquantina era, come si usa al sud, molto sorridente e ospitale nei confronti dei visitatori. “Oh Selma è piena di belle chiese, per esempio quella – indicando la Cornerstone Presbyterian Chuch – è la più bella della città. Vi consiglio davvero di visitarla. Oppure più a sinistra e un po’ più all’interno c’è la First Baptist Church: è gotica e bellissima”. “In realtà signora stiamo cercando una chiesa in particolare: la Brown Chapel”.

 

In cerca della Brown Chapel a Selma, è facile intuire che la strada principale - The Broad Street - taglia razzialmente a metà la città

 

Fu quello che adesso si chiama razzismo sistemico a far immediatamente spegnere il bel sorriso dell’interlocutrice che, nonostante ciò, per non disattendere la rinomata cortesia del sud, spiegò che quella chiesa stava dall’altra parte della città, non a sinistra della strada principale, bensì a destra. Selma è piccola e, girando a destra, si può raggiungere velocemente la Brown Chapel, ma fu facile intuire che tutta la parte destra della cittadina era abitata da gente nera, mentre, dopo un successivo breve giro turistico, la parte sinistra si rivelò pressoché completamente abitata da bianchi. Era la strada principale – The Broad Street – a tagliare razzialmente a metà la città.
Raggiunta la Brown Chapel e la stele dedicata a Martin Luther King l’italiano iniziò a fotografare. Subito dalla case intorno uscirono cinque o sei bambini neri, probabilmente attirati dal fatto che di bianchi là se ne vedevano di rado. Allora cominciarono a chiacchierare e il fotografo cercò di spiegar loro – disegnando sulla polvere – dove si trovasse l’Italia. Il gioco finì quando da una casa uscì un signore nero, probabilmente anche lui affetto da una sorta di razzismo sistemico di ritorno, che in modo poco amichevole disse: “La Brown Chapel la potete fotografare quanto volete, ma non fotografate né i bambini, né rivolgete loro la parola e andatevene via il prima possibile”.

 

Di piccole storie come queste se ne trovano a bizzeffe: in ogni punto degli Stati Uniti d’America e in ogni tempo della loro storia. Per esempio situazioni altrettanto interessanti accaddero a Washington centoquarantatré anni prima, quando il presidente Lincoln, nel 1862, volle incontrare una delegazione di eminenti cittadini neri per iniziare a ragionare sul Proclama di emancipazione, che diventerà poi il XIII emendamento. “Signori, voglio il vostro consiglio, ho bisogno del vostro aiuto. Il Parlamento ha stanziato una somma per la colonizzazione di Nuova Granada (più o meno l’attuale Panama). La terra è fertile, vi sono giacimenti di carbone ed è disabitata. Se volete potete andare a occuparla”. Perché, anche se lo si racconta raramente, questo era l’originale intendimento del Vecchio Abramo (“The Old Abe”): una volta che gli schiavi fossero stati liberati, sarebbe stato auspicabile trasferirli in un territorio apposta, in Centro America, che avrebbero colonizzato.

 

“Vi chiederete perché dovreste lasciare questo paese? Ebbene voi e noi apparteniamo a razze diverse. Vi sono fra noi differenze maggiori che fra altre due razze qualsiasi. Queste diversità fisiche costituiscono uno svantaggio per entrambi, secondo me. Molti di voi soffrono perché vivono fra noi, e molti di noi soffrono a causa della vostra presenza. Insomma, si soffre da ambo le parti. Se si ammette questo, ecco trovato almeno un valido motivo in favore della nostra definitiva separazione, perché anche quando cesserete di essere schiavi, voi sarete ben lungi dall’essere messi alla pari con la razza bianca”.
Un pastore di New York disse: “Signor presidente, dopotutto questa è anche la nostra patria. Alcune nostre famiglie risalgono agli inizi del paese. Quindi perché mai dovremmo abbandonare le nostre case per stabilirci in questa selva che il Parlamento vi ha tanto cortesemente donato?”.
“Ma voi non pensate alle persone meno intelligenti e istruite della vostra razza? Come potranno organizzarsi gli ex schiavi, i campagnoli? Come si sostenteranno?”.
“Per tre secoli, signore, hanno sostentato se stessi, nonché i padroni bianchi. Quindi penso si possa presumere che, non costretti a mantenere nel lusso una popolazione bianca, saranno in grado di badare egregiamente a se stessi”.

 

Furono questo colloquio e il propagarsi furioso della Guerra civile che, secondo Gore Vidal, mutarono gli iniziali obiettivi di Abramo Lincoln e condussero, senza successivi progetti di trasferimento, al XIII emendamento della Costituzione americana, approvato dal Congresso il 31 gennaio del 1865, con Lincoln appena eletto per la seconda volta presidente, e ratificato dai tre quarti degli stati il 6 dicembre del 1865, sotto la presidenza di Andrew Jackson, perché Lincoln era stato assassinato otto mesi prima.

 

Lo stato del Kentucky ratificò il XIII nel 1976, il Mississippi nel 1995. Dal mero punto di vista dei documenti, la schiavitù esisteva ancora

 

Ma, ancora una volta, come si spiega l’evoluzione del razzismo sistemico tra il 1865 e l’incontro del turista italiano con i due cittadini di Selma nel 2005, senza per forza dilungarsi e cavillare sulle conseguenze della sentenza della Corte suprema del 17 maggio del 1954 (Brown contro il distretto scolastico di Topeka) e il Voting Rights Act del 1965? Credo proprio che, nel corso del tempo, le fasi della ratifica del XIII emendamento costituiscano un saggio esemplare di ciò che Biden ha chiamato il razzismo sistemico negli Stati Uniti d’America. 
Un emendamento alla Costituzione viene recepito a tutti gli effetti nella legislazione americana quando, come si è già sottolineato, i tre quarti delle assemblee legislative del totale degli stati lo approvano. Il 6 dicembre 1865 la Georgia fu il ventisettesimo stato a ratificare l’emendamento contro la schiavitù e l’involontaria servitù. In quel momento gli stati americani erano trentasei e l’approvazione del Senato della Georgia permise di raggiungere i tre quarti fatidici per la modifica della Costituzione. Dei nove stati rimanenti sei lo ratificarono entro il 1870, gli altri tre nel XX secolo. Il Senato del Delaware lo approvò nel 1901, mentre le ratifiche dei due stati restanti lasciano veramente a bocca spalancata. Lo stato del Kentucky, all’interno dei cui confini si trova la famosa capanna di tronchi di Hodgenville dove nacque Abramo Lincoln, abolì simbolicamente la schiavitù il 18 marzo del 1976, come scrissero i giornali dello stato subito ripresi dalle più importanti testate americane: “Ben 111 anni dopo la vera abolizione”. Ancor più clamoroso è ciò che accadde nello stato del Mississippi in cui il Senato ratificò il XIII emendamento il 16 marzo del 1995.

 

Ciò significa che il turista italiano che, prima di allora, si fosse messo in viaggio su quelle strade per visitare la casa natale di Elvis Presley a Tupelo, o la casa di William Faulkner a Oxford, oppure le splendide Vicksburg e Natchez, stava in realtà percorrendo la dylaniana Highway 61 in uno stato in cui, dal mero punto di vista dei documenti, la schiavitù esisteva ancora. A peggiorare ulteriormente la questione s’è poi venuto a sapere che la certificazione della ratifica da parte dello US Archivist, che è il custode di tutte le leggi americane, è avvenuta solo il 7 febbraio 2013, perché nessun impiegato dello stato del Mississippi s’era mai premurato di inviare gli atti dell’approvazione a Washington.

 

Di questo tipo di atteggiamento, così colmo di "sviste innocenti", parlò Martin Luther King nel 1963, quando salmodiò il suo "I have a dream"

 

A Jackson, i governatori Kirk Fordice e Phil Bryant discolparono i loro predecessori dal 1865 in poi, sostenendo che s’era trattato di banali sviste delle macchine amministrative del Mississippi, troppo oberate da faccende di altro genere, “più pratiche piuttosto che teoriche, come un emendamento della Costituzione”. Ma è probabilmente di questo tipo di atteggiamento, così colmo di sviste innocenti, di cui parlò Martin Luther King il 28 luglio 1963, al Lincoln Memorial, quando salmodiò il suo “I Have A Dream”, usando con precisione chirurgica l’avverbio “persino”.
“Io ho un sogno che un giorno ‘persino’ lo stato del Mississippi, uno stato soffocato dall’ingiustizia e dall’oppressione, possa trasformarsi in un’oasi di pace e giustizia”.
Tuttavia, una volta giunto al completamento del processo di ratifica del XIII emendamento, il peregrinare di Henry Morton Stanley lungo il Grande fiume americano non l’avrebbe condotto molto più in là di quel benedetto “non esiste un’unica immagine dell’America. Ogni luogo che si raggiunge è un’America differente”, se non fosse casualmente incappato proprio in un articolo di questo giornale – “Ironia della Corte” di Maurizio Stefanini – in cui si leggeva: “Quando dunque nel 2018 il Mississippi ha adottato una legge che metteva al bando l’aborto dopo la 15esima settimana, le Corti federali di grado inferiore hanno subito sospeso la legge, provocando il ricorso alla Corte suprema”.

 

Così è stato facile scoprire che il casus belli che ha condotto all’abolizione della sentenza sull’aborto negli Stati Uniti, delegandolo alle disciplina in materia dei singoli stati, è veramente nato da una controversia tra il Dipartimento di stato per la Salute del Mississippi, rappresentato dal dirigente Thomas E. Dobbs e l’unica clinica nello stato in cui si praticava l’interruzione di gravidanza tra la quindicesima e la ventottesima settimana, la Jackson Women’s Health Organization (Dobbs vs Jackson Women’s Health Organization).
E’ stato allora che l’odierno Sir Henry Stanley ha compreso di essere davvero molto vicino al vero centro nevralgico della grande nazione americana, come quando a Mbandaka intuì che il fiume su cui stava navigando, quello che gli indigeni chiamavano Lualaba, non poteva essere il Nilo, quanto piuttosto il Congo. Il grande cuore pulsante dell’America si trovava inaspettatamente in quei paraggi trascurati, perché lo stato del Mississippi è conosciuto solo per le magnolie, il kudzu, il blues, la casa natale di Elvis e può contare solo su sei Grandi elettori sui cinquecentotrentotto che eleggono il presidente. Tuttavia, a essere più previdenti, bastava leggere un poco William Faulkner, mississippiano purosangue, per agevolare la navigazione e arrivare più velocemente alla tanto desiderata meta.

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