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editoriali

Con Ungheria e Polonia l'Ue ha ceduto

Redazione

Quanto costa a Bruxelles l’appeasement con gli illiberali. Orban riesce a far omettere dal sesto pacchetto le sanzioni a Kirill, mentre Varsavia riceverà i fondi del Recovery nonostante i dubbi sullo stato di diritto

Gli ambasciatori dell’Unione europea oggi hanno finalmente approvato il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, facendo un’altra concessione a Viktor Orbán oltre all’esenzione dall’embargo sul petrolio per l’Ungheria: di fronte all’ennesima minaccia di veto ungherese, il patriarca Kirill, capo della chiesa ortodossa di Mosca, è stato tolto dalla lista nera dell’Ue. Poche ore dopo, Ursula von der Leyen si è recata a Varsavia per consegnare nelle mani del primo ministro, Mateusz Morawiecki, il via libera della Commissione al piano di Recovery della Polonia, nonostante i pesanti dubbi sull’indipendenza della giustizia: di fronte ai veti polacchi su provvedimenti come la tassazione delle multinazionali, lo stato di diritto è stato sacrificato alla realpolitik bruxellese.

 

L’attitudine di Orbán e, almeno in parte, quella di Morawiecki rilanceranno il dibattito sulla regola dell’unanimità in settori come la politica estera e la tassazione. La tentazione è ancora più forte per il fatto che Francia, Germania e Italia sono disponibili a riaprire i trattati, sull’onda della Conferenza sul futuro dell’Europa. Ma sarebbe illusorio pensare di poter passare facilmente al voto a maggioranza: Ungheria e Polonia non rinunceranno ai loro veti e per modificare i trattati serve l’unanimità. Soprattutto, l’origine del male sta nella condiscendenza con cui la Commissione e gli stati membri hanno trattato la deriva illiberale di Budapest e Varsavia.

 

Orbán è l’esempio più lampante di questa condiscendenza. Dal suo ritorno al potere nel 2010, il premier ungherese ha inesorabilmente costruito un regime sempre più vicino all’autoritarismo, in cui i princìpi della democrazia liberale – indipendenza della giustizia, libertà di stampa e accademica, lotta alla corruzione e al nepotismo, rispetto delle minoranze – vengono calpestati. I tre presidenti della Commissione che da allora si sono succeduti – José Manuel Barroso, Jean-Claude Juncker e Ursula von der Leyen – hanno preferito chiudere un occhio di fronte alla deriva illiberale di Orbán. Sono state aperte procedure di infrazione, che al massimo hanno portato a qualche condanna della Corte di giustizia dell’Ue. Orbán modificava i testi legislativi più controversi, ma senza toccare la loro sostanza.

 

I capi di stato e di governo non hanno mai voluto discutere seriamente del problema Ungheria. Von der Leyen ha ritardato il più possibile l’attivazione del meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto, che permette di tagliare i fondi dell’Ue ai paesi che non rispettano i princìpi fondamentali. Dall’inizio della guerra russa contro l’Ucraina, nessuno ha mai detto a Orbán che alla fine deve scegliere: o l’Ue o Putin. Non c’è da stupirsi se il premier ungherese abbia tenuto sotto ricatto il sesto pacchetto di sanzioni per quattro settimane, fino a ottenere l’esclusione del petrolio che arriva via oleodotto in Ungheria. Ancor meno che abbia tentato un ultimo colpo di mano, non solo con il patriarca Kirill, ma cercando anche di riaprire il pacchetto per poter rivendere il diesel ungherese nel resto dell’Ue anche se prodotto a costi molto più bassi. Juncker apostrofava scherzosamente Orbán chiamandolo “dittatore”, ma non è più uno scherzo.

 

La stessa condiscendenza è quella che mostra von der Leyen sulla Polonia. Con la guerra in Ucraina, all’improvviso il governo Morawiecki è considerato tra i primi della classe per il sostegno a Kyiv e l’accoglienza dei rifugiati. Con il via libera al piano di Recovery da oltre 35 miliardi, la Commissione dimentica tutti i problemi sistemici. La riforma della giustizia è solo cosmetica (anzi, il controllo sui giudici viene rafforzato con il sistema di nomina da parte del ministro della Giustizia). La supremazia del diritto europeo su quello nazionale continua a essere contestata. Il governo controlla i media e vìola i diritti delle donne e delle minoranze. C’è anche una ragione più venale: la Polonia ha usato il suo veto sull’adozione all’Ecofin della direttiva sulla tassazione sulle multinazionali come strumento di scambio per il Recovery. Il partito Legge e Giustizia (PiS) potrà usare i fondi dell’Ue per le sue clientele in vista delle elezioni del prossimo anno. Che sia sull’embargo sul petrolio, il patriarca Kirill, la tassazione delle multinazionali o altri temi come la riforma di Dublino, l’Ue è vittima della sua scelta di non agire sullo stato di diritto in Ungheria e Polonia.

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