In America c'è stato il primo crimine d'odio contro Taiwan

Un uomo pro-riunificazione si è introdotto in una chiesa presbiteriana di Laguna Woods e ha sparato

Giulia Pompili

Gli investigatori hanno “diverse prove” del fatto che il sospettato – ora in custodia – abbia agito per odio contro la chiesa presbiteriana taiwanese, che è tradizionalmente anche uno dei luoghi di rifugio della comunità cinese dissidente

A poche ore dalla sparatoria a Buffalo, nello stato di New York, quando una persona è entrata in un supermercato sparando e uccidendo dieci persone, nella costa opposta dell’America, in California, avveniva un altro crimine molto simile. Domenica scorsa, in una chiesa presbiteriana di Laguna Woods, nella contea di Orange, come ogni settimana la funzione era appena finita e una trentina di fedeli avevano iniziato a spostarsi verso la sala adibita a ospitare il pranzo della comunità. Secondo la ricostruzione della polizia, un uomo è riuscito a entrare in quelle stanze, ha messo i lucchetti alle porte e alcuni chiodi per sigillare le uscite, ha posizionato dietro a una tenda nera un paio di borsoni con dentro munizioni e bombe molotov e poi si è mescolato tra i fedeli. Soltanto alla fine del pranzo ha tirato fuori una pistola semiautomatica. John Cheng, un cinquantaduenne medico dello sport, con una moglie e due figli, avrebbe tentato di disarmare l’uomo, ma è stato colpito a morte. Altre cinque persone sono rimaste ferite durante la sparatoria,  di cui quattro in modo grave. 

 


Durante la conferenza stampa di ieri su quella che avrebbe potuto essere l’ennesima sparatoria di massa in America, le autorità della contea di Orange hanno dichiarato che per la prima volta stanno indagando su “un crimine d’odio contro la comunità taiwanese”. Un tema delicato, di cui si parla soprattutto in funzione geopolitica, e che adesso diventa incredibilmente reale, entra nella quotidianità soprattutto californiana, sede di una delle più importanti comunità asiatiche del mondo. L’isola che la Cina rivendica come proprio territorio e che si comporta invece come un paese indipendente de facto è il luogo dove negli ultimi mesi la tensione è aumentata parecchio: i funzionari di Pechino ritengono la riunificazione “inevitabile” e non hanno mai escluso l’uso della forza per farlo, e Taiwan, che ufficialmente è riconosciuta soltanto da una decina di paesi nel mondo, resta uno dei temi più complicati da gestire a livello diplomatico per la comunità internazionale. 

 

Gli investigatori hanno “diverse prove” del fatto che il sospettato – ora in custodia – abbia agito per odio contro la chiesa presbiteriana taiwanese, che è tradizionalmente anche uno dei luoghi di rifugio della comunità cinese dissidente ed è molto vicina alla causa dell’indipendentismo. All’interno dell’auto del sospettato è stato trovato un bigliettino, ha fatto sapere la polizia, in mandarino, dove l’uomo ha lasciato scritto che Taiwan non può essere indipendente dalla Cina. Secondo le informazioni raccolte, soprattutto dalla stampa taiwanese, il sospettato è un cittadino americano residente a Los Angeles nato a Taiwan, e figlio dei nazionalisti che dalla Cina continentale alla fine della Guerra civile si spostarono sull’isola.

 

L’uomo non avrebbe mai frequentato quella chiesa, ma in passato avrebbe partecipato ad alcune riunioni di gruppi pro-riunificazione e alle attività del National Association for China’s Peaceful Unification, un’associazione che nel 2020 il dipartimento di stato americano ha designato come missione straniera cinese vicina al Fronte unito del Partito comunista cinese – detto in altre parole: la lobby all’estero del Partito. 
La vicenda di  Laguna Woods è forse un piccolo segnale di un cambiamento che sta avvenendo soprattutto nella società americana, dove alla spinta della propaganda pubblica e politica risponde, a volte, l’azione di qualcuno finito in una zona grigia di odio e radicalismo. Ieri la presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha inviato un messaggio di condoglianze alla chiesa tramite il suo profilo Twitter, e ha scritto: “La violenza non è mai la risposta”, mentre durante la quotidiana conferenza stampa il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin, ha detto che il sospettato “è un immigrato da Taiwan”, quindi non dalla Cina continentale, e poi ha aggiunto: “Ci auguriamo che il governo americano prenda misure concrete ed efficaci per affrontare il crescente problema della violenza armata nel loro paese”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.