C'è un Trump in Corea del sud

Il presidente Yoon Suk-yeol ne spara una più grossa dell'altra. Ma il suo governo è l'ago della bilancia asiatica

Giulia Pompili

Il secondo giorno di lavoro di Yoon Suk-yeol  da presidente della Corea del sud è iniziato con una riunione d’emergenza del Consiglio nazionale di sicurezza. Giovedì scorso la Corea del nord ha effettuato l’ennesimo test missilistico – tre missili balistici a corto raggio lanciati verso il Mar del Giappone, il sedicesimo lancio sin dall’inizio dell’anno – ed è sembrata quasi la sceneggiatura di un film coreano piuttosto prevedibile, con la nuova presidenza appena insediata e subito la prima importante sfida politica da gestire. Nella narrazione cinematografica, certi espedienti servono a mostrare il passo e la postura, e a tracciare le linee rosse da non oltrepassare: nei nuovi governi hanno più o meno lo stesso significato. La nuova presidenza della Repubblica di Corea, il nome formale della Corea del sud, si è insediata martedì scorso e ha già fatto capire – almeno a parole – di voler essere molto diversa da quella precedente.


Come nella tradizione americana, anche il nuovo presidente sudcoreano ha il suo evento d’inaugurazione, che arriva un paio di mesi dopo la sua vittoria. La gran festa avviene davanti al palazzo dell’Assemblea nazionale, a Seul, e Yoon Suk-yeol quest’anno ha deciso di fare le cose in grande, all’esterno, davanti a quarantuno mila persone tra rappresentanti di governi stranieri, membri delle istituzioni e della società civile. Sapere chi c’era e chi non c’era è importante per capire la direzione della politica sudcoreana – e per quanto riguarda i dignitari stranieri, chi sono i corteggiatori di Seul. La Cina ha schierato i mezzi pesanti: all’inaugurazione la leadership cinese ha mandato il vicepresidente cinese Wang Qishan. Un peso massimo rispetto alla decisione della Casa Bianca, che ha voluto mandare soltanto il second husband, il marito della vicepresidente Kamala Harris, Douglas Emhoff. Sin dall’inizio della sua campagna elettorale, e come da tradizione per i conservatori sudcoreani, Yoon ha annunciato il ritorno a una relazione con Washington ancora più stretta, forse e probabilmente a scapito di quella con la Cina. Così Pechino manda Wang Qishan a promettere sostegno e a dimostrare un’attenzione che spesso Washington non ha con i suoi alleati asiatici. Nonostante i fiumi di parole sulla cosiddetta “strategia dell’Indo-Pacifico”, nessuno dei vertici dell’Unione europea ha partecipato all’inaugurazione di Yoon (Bruxelles e Seul hanno perfino un trattato di libero scambio). La colpa è ovviamente della guerra in Ucraina e dell’attenzione sul fronte orientale europeo, ma qualcuno a Seul ha notato la missione del presidente del Consiglio europeo Charles Michel e della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in Giappone neanche due giorni dopo, giovedì scorso. 
In generale, il nuovo presidente sudcoreano è di quelli che piacciono poco, soprattutto all’estero. Viene definito un leader populista, un Trump coreano, ma l’etichetta funziona soprattutto secondo i canoni occidentali. Del resto Yoon è il primo outsider a diventare presidente, e già questa è un’anomalia per le istituzioni sudcoreane: non faceva il politico nella sua vita precedente, ma il procuratore generale, e da quando ha annunciato la sua discesa in campo per le presidenziali, con il partito conservatore People Power Party, ha coccolato una certa parte della popolazione legata a tradizioni a dir poco ambigue.  Durante un dibattito televisivo, a ottobre scorso, sul palmo della mano di Yoon è stato notato un simbolo, il carattere cinese per wang, che vuol dire “re”. Il Partito democratico, durante una delle campagne elettorali più controverse della storia, l’ha spesso accusato di essere troppo vicino allo sciamanesimo coreano, in particolare per il suo rapporto con un controverso agopunturista, “noto per eseguire l’agopuntura su una strana area in particolare”, cioè quella anale, alludeva il suo contendente alle presidenziali Yoo Seong-min. Al di là delle preferenze e delle libertà personali, la questione è seria perché le posizioni antiscientifiche e superstiziose sono diventate un problema durante la pandemia, soprattutto tra le potentissime lobby religiose in Corea del sud (uno dei primi focolai di coronavirus arrivò da una setta religiosa il cui leader invitava i fedeli a pregare tutti insieme, molto vicini, nella speranza di immunizzarsi grazie a un non meglio specificato spirito divino). 


Nel suo discorso inaugurale, durato una ventina di minuti, il nuovo presidente ha usato per 35 volte la parola “libertà”. Un discorso più motivazionale che politico e programmatico, condito da frasi piuttosto condivisibili: “La libertà è un valore universale”, ha detto solennemente. “Ogni cittadino e ogni membro della società deve poter godere della libertà. Se la propria libertà viene violata o limitata, questa è una minaccia alla libertà di tutti. La libertà non è qualcosa di cui può godere solo il vincitore. Affinché tutti possano godere della libertà, a tutti deve essere consentito di godere di un certo livello di libertà economica; a tutti deve essere garantito il diritto a ricevere un’istruzione di qualità e a tutti deve essere concessa la libertà di accedere e vivere diverse attività culturali. Non si può essere considerati davvero cittadini in assenza di tale libertà”. Poi ha parlato della disinformazione (“Sfortunatamente, la verità è spesso deformata e distorta grossolanamente a causa della conflittualità tra i paesi o per via dell’animosità tra i diversi gruppi all’interno della stessa società”) e poi della pace – senza però mai menzionare l’Ucraina (“La pace non è semplicemente evitare la guerra: la vera pace consiste nel permettere alla libertà e alla prosperità di fiorire. La vera pace è una pace duratura. La vera pace è una pace sostenibile”). Infine ha detto qualche parola sulla Corea del nord e sui rapporti intercoreani. Negli ultimi cinque anni i rapporti tra Seul e Pyongyang sono stati guidati dalla cosiddetta Sunshine policy, la politica di apertura al dialogo che in alcune fasi degli ultimi settant’anni ha aiutato nei rapporti tra le Coree. Ma negli ultimi cinque anni molte cose negli equilibri sono cambiati, il leader Kim Jong Un – smentendo tutte le previsioni, ha consolidato il suo potere, l’ex presidente americano Donald Trump gli ha dato quello che né suo padre né suo nonno erano mai riusciti a ottenere: il riconoscimento formale della Repubblica Popolare di Corea, il programma missilistico e nucleare di Pyongyang è aumentato enormemente. La strategia dei democratici in Corea del sud è quasi sempre stata quella del dialogo. Yoon invece, sin dai suoi primi giorni da candidato, ha pronunciato l’espressione tabù, quella simbolo di un’aggressività pericolosa. Ha detto: strike preventivo. “Gli attacchi preventivi sono una delle azioni autorizzate nel mondo, anche dalle Nazioni Unite, perché utilizzabili non in senso preventivo ma quando persiste una minaccia preventiva”, ha confermato di recente il portavoce di Yoon, Kim Eun-hye, durante una conferenza stampa. Durante il suo discorso programmatico all’inaugurazione, Yoon ha detto in modo molto più soft che “gli armamenti nucleari della Corea del nord rappresentano una minaccia non solo per la nostra sicurezza ma per quella dell’Asia nord-orientale”, ma allo stesso tempo “la porta al dialogo rimarrà aperta in modo da poter risolvere pacificamente questa minaccia”. Neanche due giorni dopo, Pyongyang ha annunciato il primo caso di Covid nel paese, e messo in lockdown la capitale, anche se finora era stata negata la presenza del virus sul territorio. “La situazione è più grave del previsto e di quanto annunciato”, ha fatto sapere la presidenza sudcoreana, e l’Amministrazione Yoon ha offerto vaccini e aiuto sanitario in cambio della riapertura di un dialogo. Non scontato, considerato il colore politico della presidenza a Seul.

 

 Alle elezioni del 9 marzo i cittadini sudcoreani hanno deciso per un ritorno (con il minuscolo margine dello 0,7 per cento, c’è da dire) dei conservatori al potere, ma non è stata soltanto la conseguenza di una tendenza all’alternanza elettorale. Perché la Corea del sud, ormai decima economia al mondo, negli ultimi anni è cambiata radicalmente e con una velocità impressionante. L’Amministrazione precedente a Seul, quella del presidente Moon Jae-in, era arrivata dopo l’impeachment dell’ex presidente Park Geun-hye, figlia del padre padrone della patria, Park Chung-hee. Il processo contro la presidente, cinque anni fa, era stato specie di catarsi per la società sudcoreana, con milioni di persone scese in piazza a chiedere un cambiamento radicale della politica e del rapporto con i suoi cittadini. Moon era perfetto per dare forma a queste richieste, un Obama coreano con un talentuoso staff della comunicazione alle spalle: figlio di immigrati nordcoreani, ex avvocato dei diritti umani, progressista ma anche d’establishment, pronto ad aprire il dialogo col il Nord a qualsiasi condizione, a dare una speranza ai giovani sudcoreani schiacciati da una delle società più competitive del mondo. Non tutto è stato compiuto, anzi. L’unico vero grande successo di Moon, guardando a questi cinque anni, è stato quello di aver facilitato una nuova fase della democrazia coreana, ancora immersa nel conservatorismo asiatico tradizionale: con lui per la prima volta si è potuto parlare liberamente dell’autoritarismo del passato sudcoreano, della legge marziale (durata fino agli anni Ottanta e caratterizzata da uno spaventoso sistema repressivo, come quello usato durante le proteste di Gwangju del 1980, la piazza Tienanmen sudcoreana).

 

Moon continua a essere uno dei presidenti più apprezzati d’Asia e sta per raggiungere un record nella storia repubblicana sudcoreana: potrebbe essere il primo ex presidente a non essere finito in galera o suicida. Park, che era stata presidente dal 2013 fino all’impeachment del 2017, sembrava destinata all’oblio in carcere, accusata di corruzione e traffico d’influenze in un processo guidato dall’allora procuratore generale, cioè lo stesso Yoon Suk-yeol. Uno degli ultimi atti del presidente Moon è stato quello di concederle la grazia presidenziale, e poco dopo il presidente-eletto Yoon si è presentato a casa della signora dei conservatori Park, le ha chiesto scusa per le sue inchieste e l’ha invitata all’inaugurazione. L’altro giorno, insieme alle quarantuno mila persone davanti all’Assemblea nazionale, c’era anche lei, Park Geun-hye, ad assistere al giuramento del nuovo presidente. 

 

A un certo punto si era diffusa la voce che dopo il discorso programmatico di Yoon, nel giorno dell’insediamento, si sarebbero esibiti i Bts, la superband sudocoreana ormai più famosa del mondo. E’ stato lo stesso comitato organizzatore dell’inaugurazione a dire che alla fine l’invito non era stato mai nemmeno spedito: “I Bts sono un asset culturale sudcoreano”, ha detto il presidente del comitato Park Joo-sun, “ma la cerimonia deve essere un evento armonioso”, e non creare divisioni.  I Bts hanno avuto il loro momento di gloria durante la precedente Amministrazione Moon, che aveva destinato molti fondi e molta comunicazione politica alla cultura – film, musica, serie tv sudcoreane sono esplose negli ultimi cinque anni. I conservatori al governo, tradizionalmente, sono considerati il contrario della libertà d’espressione: durante il processo d’impeachment di Park venne fuori una lista nera del suo ministero della Cultura con un infinito elenco di artisti – registi, attori, cantanti, Festival – che erano per così dire invisi al governo. E il rischio è che tutto questo capitale di soft power costruito negli anni si perda un po’ con Yoon, con il quale pochi esponenti del mondo delle arti vogliono essere associati. I motivi ci sono: anzitutto Yoon non è simpatico. In una sua apparizione a un popolare quiz show satirico, tentando un’operazione simpatia, si è preso estremamente sul serio, tanto che anche senza capire una parola di coreano le espressioni dei conduttori sono eloquenti. Ma soprattutto, durante tutta la campagna elettorale, Yoon ha fatto un numero sorprendente di dichiarazioni antifemministe, e a un certo punto ha suggerito perfino di abolire il ministero per le Pari opportunità e la famiglia, accusando i suoi funzionari di trattare gli uomini come “potenziali criminali sessuali” e incolpando il femminismo del basso tasso di natalità del paese. Poi tutto è rientrato, il ministero è ancora lì, ma nel populismo di Yoon c’è anche il tentativo di dare voce a quella parte della popolazione composta da giovani uomini arrabbiati con le donne – che non fanno il servizio militare come loro, che possono studiare oppure lavorare, stare a casa, insomma possono scegliere, invece di dedicarsi anima e corpo ai suddetti maschi. La Corea del sud vive già da qualche anno una sorta di scontro sociale tra maschi contro femmine, che ha radici lontane, nei ruoli tradizionali e nella scarsa educazione sessuale maschile: molti sudcoreani escono di casa per la prima volta da adulti per trascorrere poi i successivi diciotto mesi in caserma. Il gigantesco fenomeno delle spycam, le microcamere nascoste nei luoghi pubblici più privati delle donne, dai camerini ai bagni, è strettamente connesso a questa subalternità femminile (il principio è: ti riprendo quando voglio, come voglio) ed era stato affrontato per la prima volta da Moon, che era stato perfino troppo cauto nel prendere una posizione sullo scontro.  Adesso c’è una metà della popolazione sudcoreana che pensa che con Yoon si rischi un ritorno al punto di partenza. 


Nel frattempo, il neopresidente ha raggiunto il suo primo obiettivo: si è sbarazzato della Casa Blu, il tradizionale palazzo presidenziale di Seul. In passato in molti ci avevano provato: il compound presidenziale è bellissimo ma lontano dalla città, dai cittadini, iperprotetto, e secondo la superstizione sudcoreana avrebbe un’influenza negativa sui suoi abitanti. Moon aveva abbandonato l’idea di trasferire l’ufficio presidenziale altrove perché lasciare la Casa Blu sarebbe stato troppo costoso. Yoon ce l’ha fatta, ha aperto al pubblico l’ex edificio presidenziale e ha detto ai suoi cittadini: vedete? Basta con questi privilegi, sono più vicino a voi. Il nuovo ufficio presidenziale è stato individuato nel quartiere di Yongsan, a circa cinque chilometri dalla Casa Blu, in un compound del ministero della Difesa. La sua prima riunione lì l’ha fatta da un bunker sotterraneo, e per arrivarci, dalla sua abitazione privata, due corsie dell’intero centro di Seul sono state chiuse al traffico per far passare la colonna presidenziale. Saranno cinque lunghi anni.  

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.