l'intervista

Come si racconta la Russia quando mancano le parole

Micol Flammini

Il vocabolario dei significati proibiti e la promessa democratica russa, che si è infranta con l’arrivo di un čekista al potere. Parla Zoja Svetova

Milano. Zoja Svetova è arrivata in Italia prendendo un volo da Mosca ad Abu Dhabi. Ha sostato in un albergo dell’aeroporto, e poi si è diretta a Milano. Prima del 24 febbraio, la giornalista russa avrebbe potuto prendere un volo diretto: Mosca-Milano.  Invece ora la Russia  sembra allontanarsi sempre di più. E mentre si allontana, torna indietro nel tempo: “La storia va a ritroso, vediamo elementi di dittatura e totalitarismo e  vediamo tornare i piani imperiali. C’è una differenza però – dice al Foglio Svetova – non c’è una cortina di ferro. Io posso venire a Milano, posso uscire dalla Russia. Posso guardare YouTube e informarmi. Ma molte delle cose che vediamo oggi è innegabile che le abbiamo viste durante l’Unione sovietica”. La giornalista che ha collaborato con Novaja Gazeta e si è occupata del sistema giudiziario russo calibra le parole, perché oggi in Russia sono rischiose, alcune sono proibite, e come si fa a raccontare  se il vocabolario russo si fa sempre più ristretto?  

 

Oggi Zoja, a Milano per la Giornata della libertà di stampa al Giardino dei giusti,  non ha un giornale in cui scrivere, la Novaja Gazeta ha chiuso, ha però un canale Telegram in cui parla del presente usando  il passato e fa dei podcast che raccontano storie di emigrazione. Ma guarda questa Russia che cambia, che si rinchiude, che invade l’Ucraina e le mancano le parole. “Avevo iniziato a seguire la storia di una madre  che non trovava più suo figlio, un soldato. Lo aveva visto in una foto su un sito ucraino, che per Mosca è una fonte inattendibile. Dall’esercito le avevano detto che era vivo e lei un giorno ha anche ricevuto una sua  telefonata”. C’era qualcosa che non tornava in quella storia, “e in tempi di pace avrei potuto fare delle ricerche, capire la verità scrivendo”. Oggi è impensabile, ma Mosca continua a essere  piena di storie: “Un giorno, in un negozio, ho visto una signora che comprava una bandiera russa. Le ho chiesto per cosa fosse e mi ha risposto che era per suo figlio, affinché la mettesse sul carro armato”. Evidentemente l’esercito non ne  aveva più. Per dare la bandiera a suo figlio,  sarebbe dovuta andare al confine nella regione di Rostov, “è una grande storia per una giornalista, una madre che compra una bandiera per suo figlio. Sarebbe stato interessante vedere l’incontro, la consegna della bandiera”. Ma ci sono cose che  sono finite nell’irraccontabile, in questa Russia che è tornata indietro nel tempo, che ci  ha rimesso davanti agli occhi i peggiori incubi della storia. 

Kirill Rogov è un famoso politologo russo, vive in Austria, e ritiene che Mosca, per ora, abbia perso in Ucraina, ma abbia vinto in Russia. “C’è gente depressa a Mosca,  e sono tutti coloro che erano contro la linea del Cremlino. Putin ha vinto contro tutte queste persone”. Boris Pasternak, in uno dei suoi versi, raccontava che da solo non puoi distinguere la vittoria dalla sconfitta, “sono dei versi molto belli”, secondo Zoja Svetova, e ad applicarli alla guerra, a Putin, alla Russia potrebbero essere la storia di una vittoria che non dura per sempre,  momentanea.  Zoja Svetova si è accorta che la Russia non avrebbe preso il cammino democratico in cui lei e altri avevano sperato appena Putin è arrivato al Cremlino. Aveva la fama di un talentuoso giurista e a questa fama in occidente hanno creduto in molti. In Russia anche, e il mito di Putin è stato alimentato dalla sua abilità di dire cose semplici, dirette, uno stile populista cristallino che in tanti apprezzavano. Diceva, all’inizio del suo mandato, che avrebbe riservato molta attenzione alla legge, “usava  belle parole, ma quando abbiamo visto arrivare un čekista abbiamo capito: non era quella l’alternativa democratica”. I cekisti erano i funzionari della Čeka, un corpo di polizia politica nata per individuare e combattere i nemici dello stato, era l’antenata del Kgb, di cui Putin ha fatto parte. “Mio nonno è stato arrestato dalla Čeka e poi giustiziato”, si chiamava Grigori Friedland, era uno storico della Rivoluzione francese. Sua nonna fu mandata in un gulag perché moglie di “un nemico del popolo”. “I miei genitori sono stati arrestati dal Kgb, mandati in prigione e poi in Siberia, io stessa  ho subìto le perquisizioni dell’Fsb”, il nuovo Kgb. “Putin era ormai  formato quando è arrivato al Cremlino, sapevamo che non sarebbe cambiato”.  Svetova è stata insignita della Legion d’onore in Francia e ride quando ricorda che anche Putin fa parte dello stesso ordine “ma io sono un semplice cavaliere”. 

 

Già prima che il presidente arrivasse al Cremlino  c’erano segnali preoccupanti:  “Eltsin era un uomo debole, ma ha anche avuto dei cattivi consiglieri. I democratici che gli stavano attorno volevano fare alla svelta”. Un  errore è stato lasciare impunito chi collaborava con il regime sovietico. Se si fosse fatto qualcosa, Putin, da ex ufficiale del Kgb, non sarebbe mai potuto diventare presidente. Invece così il nuovo era di nuovo il vecchio: “Nei tribunali c’è la stessa mentalità di prima, la stessa di quando hanno incarcerato mio padre, io chiedevo perché e la ragione era che i suoi libri venivano pubblicati all’estero”. Ai tribunali Svetova ha dedicato un libro uscito anche in Italia, “Gli innocenti saranno colpevoli” (Castelvecchi). Sottotitolo: “Appunti di un’idealista”. Essere idealista nella Russia di Putin vuol dire “credere che i tribunali smetteranno di essere un’imitazione dei tribunali veri; credere che questa situazione passerà; che il paese migliorerà; che i miei figli e nipoti non vivranno da emigrati; che vincerà il bene. In questo senso sono un’idealista”. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.