L'ambiguità americana sulla difesa di Taiwan potrebbe finire presto

Le conseguenze della guerra in Ucraina da parte della Russia, dall'altra parte del mondo

Giulia Pompili

Aumentano le pressioni bipartisan sull’Amministrazione Biden affinché abbandoni la cosiddetta ambiguità strategica nei confronti dell'isola minacciata da Pechino

A oltre due mesi dall’inizio della guerra in Ucraina, a Washington stanno aumentando le pressioni bipartisan sull’Amministrazione Biden affinché abbandoni la cosiddetta ambiguità strategica nei confronti di Taiwan. L’espressione “ambiguità strategica” dovrebbe trasformarsi in una “chiarezza strategica”, e non è soltanto una questione lessicale.  Da quando l’America ha deciso di riconoscere formalmente la Repubblica popolare cinese (non riconoscendo più la Repubblica di Cina) nel 1979, le relazioni tra Washington e il governo di Taiwan sono guidate dal Taiwan Relations Act. Una legge che, tra le altre cose, dice che l’America deve fornire a Taiwan armi di carattere difensivo per aiutarla a difendersi, ma è poco chiara su cosa dovrà fare Washington in caso di guerra. Mandare uomini, oltre che missili? Dopo la guerra di Putin in Ucraina, Taiwan è tornata al centro del dibattito internazionale, e anche se la situazione è molto diversa nel Pacifico l’identità nazionale progressista e democratica taiwanese è un ostacolo alla “riunificazione pacifica” che vorrebbe Pechino. L’ammiraglio Philip Davidson, ex comandante del Pacifico, ha detto a marzo al Congresso che si aspettano una  mobilitazione cinese per “riconquistare” Taiwan non prima del 2027, ma prima di allora bisognerà capire se davvero, l’America, ha intenzione di andare a difendere il piccolo paese del Pacifico e se una eventuale “chiarezza strategica”, annunciata in questa fase, possa funzionare da deterrente per Pechino. In una dichiarazione rimasta celebre – anche per la tensione che aveva provocato – il 22 ottobre del 2021, il presidente Joe Biden rispose “certo, abbiamo un impegno su questo” al giornalista che gli chiedeva se l’America avrebbe difeso Taiwan in caso di invasione. Poco dopo, il portavoce della Casa Bianca andò davanti alle telecamere per dire che quella risposta non aveva cambiato niente della “ambiguità strategica” americana su Taiwan. 


Ad aprile su Project Syndicate è apparso un articolo dell’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe che fa una richiesta esplicita agli Stati Uniti: abbandonare l’ambiguità su Taiwan. Per Abe l’isola de facto indipendente, come l’Ucraina potrebbe essere attaccata da un paese che siede al Consiglio di sicurezza della Nazioni unite, ma diversamente dall’Ucraina non è riconosciuto a livello internazionale, e qualsiasi “operazione speciale” cinese sarebbe tecnicamente legittima. “La politica dell’ambiguità ha funzionato benissimo”, scrive Abe, “fintantoché l’America era abbastanza forte da portarla avanti, e fintantoché la Cina era di gran lunga inferiore agli Stati Uniti sul piano della potenza militare. Ma quel tempo è finito. La politica statunitense dell’ambiguità su Taiwan sta ora fomentando l’instabilità nella regione dell’Indo-Pacifico, sia incoraggiando la Cina a sottostimare la determinazione americana, sia preoccupando il governo di Taipei più del necessario”.

Il dibattito sul coinvolgimento diretto o meno dell’America in caso di conflitto è molto importante anche per la Cina. Yan Xuetong, uno degli accademici cinesi più influenti nel mondo, rettore dell’Istituto per le relazioni internazionali della Tsinghua University, ha scritto ieri un lungo saggio su Foreign Affairs che cerca di spiegare con metodo la posizione di Pechino sulla guerra in Ucraina e di giustificare la “strategia di bilanciamento” che la Cina eserciterebbe nella sua politica estera. La teoria di Yan Xuetong è molto importante perché fu lui, nel 2005, a introdurre tra gli studiosi cinesi il concetto di “realismo morale” nelle relazioni internazionali per accompagnare l’ascesa cinese con una vera dottrina politica. Secondo il professore, la Cina si ritrova intrappolata tra potenze rivali come negli anni tra il 1958 e il 1971: in quel caso Pechino scelse la parte americana, andò contro l’Unione sovietica ma perse molto in termini di sviluppo economico. “Il ricordo di quella terribile storia ha determinato la risposta della Cina alla guerra in Ucraina e ha rafforzato il suo impegno a evitare di rimanere ancora una volta incastrato tra Washington e Mosca”. E alla fine Yan Xuetong arriva a Taiwan: “Finché gli Stati Uniti non offriranno supporto militare a una dichiarazione di indipendenza de jure taiwanese, è improbabile che la Cina si discosti da questo percorso di sviluppo pacifico”. L’isola resta il tema centrale del rapporto tra Washington e Pechino.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.