Pechino 2022 inaugura la guerra dei panda

Pechino fa di tutto per promuovere il suo simbolo nazionale, ma ci vuole ben altro soft power per ripulirsi l'immagine

Giulia Pompili

Esattamente cinquant’anni fa Mao Zedong regalava a Richard Nixon due panda giganti. La diplomazia degli orsetti pucciosi e il problema con la mascotte dei Giochi, Bing Dwen Dwen

Esattamente cinquant’anni fa, Mao Zedong regalò all’allora presidente americano Richard Nixon due panda giganti. La cosiddetta diplomazia dei panda  fece così il suo ingresso nelle relazioni con l’occidente, e Ling-Ling e Hsing-Hsing vissero per oltre vent’anni allo zoo di Washington come simbolo delle relazioni  tra America e Cina, attirando migliaia di visitatori. Secondo diversi storici, è soprattutto grazie a quella popolarità che Pechino capì l’importanza di trasformare l’animale – un mammifero appartenente alla famiglia degli orsi, naturalmente piuttosto aggressivo, originario della Cina centrale – in un simbolo della nazione. Un elemento fondativo del suo soft power, l’immagine pubblica della Cina nel mondo. Il panda è sulle monete cinesi, le obbligazioni denominate in renminbi si chiamano “Panda bonds”, le mascotte dei Giochi olimpici ospitati dalla Cina sono dei panda. L’orsacchiotto bianco e nero racchiude molti simbolismi: era una specie in via d’estinzione che si è salvata  grazie all’ostinazione cinese. Neanche un anno fa il ministero dell’Ambiente di Pechino ha cambiato la classificazione dell’animale da “rischio estinzione” a “vulnerabile”, con almeno 1.800 esemplari in natura. Un bel risultato, solo che poi  si è passati dalla diplomazia dei panda alla guerra dei panda. 


Bing Dwen Dwen, il panda “dagli occhi pieni di rugiada e il guscio di ghiaccio”, è la mascotte delle Olimpiadi invernali di Pechino 2022. Nei mesi scorsi era stato votato come la mascotte più brutta delle Olimpiadi, ma poi deve essere successo qualcosa, perché improvvisamente è diventata la star del loop olimpico, tanto che a oggi sono introvabili i gadget con il suo faccione. Anche quando il megapanda ha parlato in pubblico intervistato dalla tv cinese, violando le regole del Comitato olimpico internazionale e usando una voce da maschio cresciuto che non è piaciuta agli utenti online, sembra al contrario che    tutti amano Bing Dwen Dwen. Perché  questa è la versione degli organi ufficiali della propaganda cinese, delle figure istituzionali su Twitter, delle agenzie di stampa e degli youtuber pagati dal governo per “parlar bene” delle Olimpiadi. Una notizia di colore, “tutti pazzi per  Bing Dwen Dwen”, ripresa e circolata pure sui media occidentali. E c’è da crederci: solo un panda con la faccia buffa avrebbe potuto rendere più allegra l’atmosfera di questi Giochi super sanitarizzati, una specie di Grande fratello in formato sportivo da cui non si può uscire, dove il cibo lo distribuiscono i droni e lo staff indossa tute anticontaminazione. 


Il problema è che il soft power l’hanno inventato gli americani. Che sanno bene come usarlo, e quindi come distruggerlo. Un disegno di legge al Congresso americano, sponsorizzato dalla repubblicana  Nancy Mace e arrivato in calendario all’inizio di febbraio, si chiama molto esplicitamente “Anti-China PANDA Act”. Il testo dice che viste le violazioni dei diritti umani da parte della Cina, le pressioni contro Taiwan e  Hong Kong, bisogna mettere fine all’uso strumentale della diplomazia dei panda e agli accordi  con Pechino – che vuole che tutti i figli di panda cinesi all’estero tornino nella madrepatria, in un sistema di pianificazione famigliare quasi paragonabile a quello che il Partito impone ai suoi cittadini. “Per troppo tempo, il Partito  ha tentato di ammorbidire la sua immagine usando quella del  panda coccolone e prestando i panda giganti ai paesi stranieri al costo di 500 mila dollari a esemplare”. Mace propone di non restituire né i panda né i loro figli: “Colpiamo la Cina dove fa più male. Dai la libertà ai panda e consenti ai panda nati negli Stati Uniti di rimanere negli Stati Uniti”. La legge non passerà, ma come sempre, è solo una questione di soft power.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.