Donald Trump (Ansa)

IN america

Il Gop è di Trump, ma ci sono dei segnali inattesi di una resistenza

Matteo Muzio

Mentre il Partito repubblicano nazionale diventa sempre più trumpiano, gli eletti al Congresso cominciano a comprendere che qualcosa non va. C’è una minaccia pendente sulle prossime elezioni: quella del ribaltamento elettorale del risultato legittimo, a cui l'ex presidente starebbe lavorando in vista del 2024

Se il Partito repubblicano nazionale diventa sempre più trumpiano, gli eletti al Congresso cominciano a comprendere che qualcosa non va. Non solo per la probabile inadeguatezza dell'ex presidente Donald Trump anche nel 2024: questo è stato digerito dal grosso degli eletti e dei militanti, che di fatto si sono trumpizzati, a volte in modo riluttante altre volte in modo più esplicito. C’è una minaccia pendente sulle prossime elezioni: quella del ribaltamento elettorale del risultato legittimo.

 

Dopo le restrizioni imposte dai governatori e dalle legislature degli stati più conservatori, qualora dovessero prevalere i democratici alle presidenziali, Trump chiederebbe la contestazione del voto. Se ci fosse una maggioranza repubblicana in entrambe le Camere, il ribaltamento del voto sarebbe una possibilità. Lo ha scritto Bob Woodward in “Pericolo”, il suo ultimo libro: il piano di Trump era che il suo vicepresidente Mike Pence non accettasse le certificazioni di sette stati, che riconoscesse le liste alternative stabilite da Trump con cerimonie dal nessun valore legale e che quindi riconoscesse Trump come presidente rieletto. Un piano molto grezzo che però non verrebbe del tutto escluso da una legge antica e farraginosa: la legge sul conteggio elettorale del 1887. 

 

Questa legge fu scritta undici anni dopo le elezioni del 1876, un’elezione contestatissima dove i democratici di Samuel Tilden avevano vinto il voto popolare ma tre stati controllati dai repubblicani certificarono un risultato influenzato da brogli e altre irregolarità. Dopo l’istituzione di una commissione paritaria, l’elezione si concluse con un accordo: i repubblicani di Rutherford Hayes erano i vincitori, ma i democratici ottenevano che il governo federale non interferisse nelle leggi segregazioniste al sud. La legge quindi avrebbe consentito al Congresso di respingere eventuali brogli palesi. Solo che la legge è scritta in un oscuro linguaggio giuridico che avrebbe potuto far sì che anche un piano così male congegnato come quello trumpiano potesse aver successo, dato che non sono ben chiari i poteri del vicepresidente che presiede la registrazione dei voti. Trump lo ha esplicitato di recente, con un comunicato emanato il 31 gennaio: Mike Pence avrebbe dovuto “ribaltare” il risultato. Quest’ultimo ha risposto di fronte a una platea particolare: la Federalist Society, un’associazione giuridica conservatrice. Usando parole insolitamente chiare: “Trump ha torto, non lo avrei potuto fare”. Un’ interpretazione restrittiva.

 

Anche per questo il Congresso si sta muovendo: a inizio gennaio Mitch McConnell, leader repubblicano al Senato, si è detto disponibile a discutere una riforma della legge. A conferma delle sue intenzioni, si registra anche la sua critica aspra al Comitato nazionale repubblicano, controllato dai trumpiani per aver sanzionato due esponenti come Liz Cheney e Adam Kinzinger per aver partecipato alla commissione d’inchiesta sull’assalto del 6 gennaio 2021, ritenendo quell’evento parte del “legittimo discorso politico”. McConnell ha invece affermato che si trattava di un’insurrezione violenta e che il Comitato nazionale non dovrebbe impicciarsi di questo ma dovrebbe sostenere tutti gli eletti a prescindere dalle loro posizione. La proposta in discussione è semplice: estendere la deadline per eventuali contestazioni prima della certificazione dei grandi elettori, chiarire il ruolo notarile del vicepresidente nella sua veste di presidente del Senato e innalzare il numero dei membri del Congresso per ciascuna Camera per ottenere un’obiezione alla certificazione. Attualmente basta solo un deputato e un singolo senatore.

 

Il problema sarà mettere d’accordo i radicali dem con almeno una decina di senatori repubblicani. I primi vogliono che venga regolamentato il voto nei singoli stati, eliminando le restrizioni imposte a livello locale, mentre i moderati repubblicani vorrebbero fermarsi a questi tre punti, senza interferire con le decisioni locali. La soluzione, probabilmente, è nella dichiarazione della deputata moderata Zoe Lofgren: “Il fatto che non si riesca ad approvare una norma federale sui processi elettorali locali non vuol dire che non possiamo agire a un livello di base”. Quindi a impedire che un paio di rappresentanti trumpiani antidemocratici possano farsi notare dal capo facendo sparate senza fondamento, minando la già scarsa fiducia degli americani nei processi elettorali.

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