il racconto da kiev

Dentro alla crisi di nervi di Putin

Daniele Raineri

L’infinita tentazione russa di inghiottire l’Ucraina e tutte le idee, buone o cattive, per fermarla. Dal fango di primavera alle traiettorie imprevedibili dei missili americani Javelin alle esercitazioni del sabato mattina

Kiev, dal nostro inviato. Ieri il presidente russo, Vladimir Putin, ha dichiarato dopo un silenzio durato settimane che gli Stati Uniti e la Nato “hanno ignorato le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza”. Queste parole potrebbero essere un preludio che porta verso l’invasione punitiva dell’Ucraina, che non accetta il diktat russo sul suo futuro e sulla possibilità di aderire alla Nato e all’Unione europea. Il suo portavoce, Dmitri Peskov, ha detto però che la risposta russa alla lettera consegnata dalla Nato è ancora in fase di scrittura – come a dire: siamo ancora nella fase delle trattative. A partire da novembre Putin ha ordinato all’esercito di ammassare soldati e mezzi lungo tutto il confine dell’Ucraina e adesso la quantità di forze è tale da far temere l’inizio di un conflitto da un giorno all’altro. In questi giorni si negozia molto e si tenta di inibire l’aggressività russa con minacce di sanzioni e con l’invio di armi all’Ucraina, ma si teme anche una escalation magari innescata da episodi minori sul fronte. Ieri Russia Today, organo del governo russo, ha dato la notizia dell’uccisione di “un militare” (un russo? un separatista ucraino filorusso?) da parte di un drone dell’esercito ucraino. Ecco un compendio di fatti e di idee che riguardano questa crisi senza precedenti nella storia recente tra l’occidente e la Russia di Putin.


BTG

In questi giorni si vedono molte mappe che spiegano l’ammassamento delle forze russe attorno all’Ucraina. Su alcune c’è questa sigla in inglese, Btg, che vuol dire Battalion Tactical Group ed è un’invenzione recente dell’esercito russo (molti diranno: soltanto il nome è nuovo, il concetto è vecchio). Un Btg, che in italiano possiamo chiamare gruppo di combattimento, è una forza di circa novecento soldati (quindi non tantissimi) e molta potenza di fuoco sotto forma di carri armati, cannoni trainati e camion lanciarazzi (e sistemi di difesa aerea per essere protetti). In pratica un gruppo di sfondamento, che ha il compito di fare irruzione in un’area precisa, mettere in fuga e sopraffare i nemici grazie alla sua forza superiore e di tenere il terreno in attesa di ordini ulteriori – questi ordini di solito a loro volta sono in attesa di quello che viene fuori dai negoziati diplomatici. In breve: i Btg occupano territorio in modo rapido, mettono tutti davanti al fatto compiuto e poi la parola torna alla diplomazia. Sono uno strumento sbilanciato e pensato non per una guerra convenzionale che finisce come diceva il generale americano Eisenhower: “quando i miei soldati fanno la guardia davanti al tuo palazzo”, ma per una guerra che finisce con un round di negoziati internazionali. Come una squadra di calcio con dieci attaccanti, che può funzionare se si gioca pochi minuti. La scarsità di soldati è rimediata, nell’idea dell’esercito russo, dalla manodopera paramilitare locale. Insomma, da tutti questi elementi si capisce che questi gruppi autonomi sono la scelta di Vladimir Putin per fare la guerra nel Donbass ucraino e infatti sono stati testati nel conflitto del 2014 e 2015, anche se allora non avevano ancora la denominazione ufficiale di Btg. Se non fosse stato per i gruppi di sfondamento russi, l’esercito ucraino avrebbe riconquistato del tutto le due regioni separatiste di Donetsk e Lugansk. 

 

Nel settembre 2016 il capo di stato maggiore Valery Gerasimov annunciò che “nel giro di due anni l’esercito russo disporrà di centoventicinque Btg. Oggi ce ne sono sessantasei, entro la fine dell’anno ce ne saranno novantasei, l’anno prossimo centoquindici e l’anno dopo ancora (quindi nel 2018) arriveranno a centoventicinque”. Questo annuncio chiarisce un concetto: la Russia da tempo si prepara alla guerra con l’Ucraina come se fosse una cosa che prima o poi deve accadere e da anni rimodella le sue forze armate in vista dell’invasione. L’esercito russo oggi dispone di circa centosettanta di questi gruppi e in questi giorni ne ha schierato settantasei al confine con l’Ucraina. Di questi, dieci sono in Bielorussia pronti a muovere da nord e tre sono in Transnistria, la porzione di Moldavia occupata dai russi, pronti a muovere da sud. Vicino a Donestk, a est, ce ne sono almeno diciassette, messi lì per approfittare dei territori separatisti che offrono un largo varco d’accesso al paese. In Crimea, la penisola ucraina occupata dai russi, ce ne sono dodici. A metà gennaio i Btg sul confine erano sessanta e sappiamo che di solito i russi ne tengono circa trenta vicino al confine militarizzato con l’Ucraina, quindi erano il doppio rispetto al normale. L’ammassamento dei gruppi di sfondamento serve anche da conto alla rovescia verso una possibile invasione. Gli specialisti stimano che i russi in totale vogliano impiegarne cento e dicono che molti di questi gruppi non sono ancora assemblati, nel senso che l’esercito ha trasportato tutto il materiale vicino al confine e anche i soldati ma tutti questi elementi già sul posto non si sono ancora messi in formazione – quella che userebbero per coprire i pochi chilometri che mancano all’Ucraina e cominciare la guerra. Gli specialisti però fanno notare che nella primavera scorsa c’era lo stesso numero di uomini e mezzi schierati al confine con la Russia e non è successo nulla (sebbene la massa avesse scatenato anche in quel caso l’allarme internazionale, non così forte come oggi). Troppi numeri, meglio ricapitolare: i russi hanno creato un nuovo modo di mettere assieme soldati e carri armati, che funziona bene per sfondare una linea di resistenza, di solito ne tengono trenta sul confine ucraino ma a metà gennaio erano sessanta e oggi sono settantasei, più questo numero si avvicina a cento e più sono pronti a invadere. Il tempo per arrivare a cento potrebbe essere anche una sola settimana (ma questo non vuol dire che fra una settimana i russi invadono l’Ucraina).

 

Sacche di sangue

L’intelligence americana che sorveglia i russi sul confine ha visto che stanno portando verso la zona di operazioni anche scorte di sangue, che servono agli ospedali da campo per salvare i soldati feriti nei combattimenti. E’ intuitivo che gli spostamenti delle scorte di sangue danno un’idea di imminenza dell’invasione più forte rispetto ad altri spostamenti, come quelli di carri armati oppure di munizioni o di carburante, se non altro perché il sangue è più difficile da conservare. Interessante: la fonte della notizia è americana, ma il governo ucraino ha smentito perché da settimane tende a minimizzare gli allarmi su una possibile guerra con la Russia (lo fa per non dare agli investitori l’idea di essere uno stato fallito che dipende dall’umore di Putin per esistere oppure no).

 

 

Fango

La visione convenzionale dice che fare la guerra va bene quando il terreno è duro, quindi in inverno, ma appena la temperatura sale neve e ghiaccio si sciolgono e rendono il terreno troppo cedevole per i mezzi pesanti. Tre esperti militari però hanno appena spiegato al sito di Foreign Policy che non è più così: i russi si addestrano a combattere in ogni stagione e si sono equipaggiati e preparati di conseguenza, hanno anche portato sul fronte dei corazzati che di solito operano nell’Artico con cingoli più larghi che corrono meno il rischio di impantanarsi. Questa valutazione cambia tutti i calcoli. Prima si credeva che Putin avesse ormai soltanto pochi giorni per ordinare l’invasione perché l’inverno è ormai agli sgoccioli, ora invece si teme che il fattore fango non incida davvero sui suoi piani. Gli esperti notano anche che ci sono altri fattori non militari che potrebbero condizionare di più le decisioni della Russia, come la minaccia di colpire con sanzioni durissime gli oligarchi russi – che frequentano con profitto le capitali occidentali, ci fanno studiare i figli e comprano case favolose e non vorrebbero essere costretti a tornarsene in Russia. I mezzi corazzati possono vincere il fango primaverile nella pianura del Dniepr, ma gli oligarchi hanno il numero di telefono del presidente Putin.

 

Javelin

E’ il nome di un sistema anti carro americano. Un lanciamissili di diciotto chili che un soldato singolo può portare e usare contro un carro armato. Il missile esce con un pop dal tubo di lancio, percorre un paio di metri sospeso in aria come se stesse per cadere, poi accende il motore con un sibilo e non fila in linea retta contro il bersaglio ma vola a circa centocinquanta metri di altezza. Da lassù scende in picchiata contro la parte superiore del carro armato, che di solito è meno protetta ed è anche piatta – senza gli spigoli e le curve che possono deviare e rendere meno efficaci i tiri diretti – ed esplode con due cariche. E’ un sistema fire and forget, vuol dire che il soldato deve soltanto inquadrare il bersaglio e poi il proiettile ci pensa da solo a trovarlo e a colpirlo mentre il soldato corre via e si mette al sicuro. Costa un quarto di milione di dollari. In queste settimane gli americani stanno inviando a Kiev centinaia di sistemi anticarro Javelin a bordo di aerei che sono ricevuti con tutti gli onori da un comitato di accoglienza formato da politici e giornalisti. Di solito i trasferimenti di armi sono discreti, ma in questo caso il messaggio di deterrenza alla Russia dev’essere chiaro: questi missili sono destinati ai milleduecento carri armati che avete messo lungo il confine. Finora gli americani hanno mandato trecento Javelin all’Ucraina, che dovrebbero diventare in caso di invasione quello che i missili antiaereo Stinger furono per i mujaheddin afghani contro l’Unione sovietica negli anni Ottanta. I Javelin sono anche al centro del primo tentativo di impeachment contro l’allora presidente Donald Trump, che aveva bloccato una fornitura al governo ucraino e pretendeva, in cambio dei missili, che gli ucraini inventassero finte accuse contro il suo sfidante democratico Joe Biden. Il plot non funzionò, fu scoperto e Trump fu accusato di servirsi del suo ruolo per fini personali. I repubblicani votarono contro l’impeachment.

 

Milizie

I volontari ucraini si addestrano in un’area industriale dismessa vicino a Kiev, ci si arriva grazie a una sterrata innevata che passa per i boschi e sbuca fra i resti di edifici in cemento. Quando Stanley Kubrick girò le scene di combattimento urbano in Full Metal Jacket trasformò un impianto dismesso sulla sponda del Tamigi nella città vietnamità di Hue. Ogni sabato mattina decine di volontari fanno la stessa cosa qui, con uno sforzo di immaginazione. Si mettono in fila, ascoltano gli ordini, prendono la mira, provano i movimenti a livello di squadra. Come si avanza, come ci si gira, come ci si mette in fretta con la faccia al nemico, come si tiene sempre l’arma alta. Chi non ha i fucili veri, che comunque in Ucraina non sono difficili da comprare, imbraccia fucili di legno. I volontari sono divisi per esperienza. C’è la squadra dei nuovi arrivati, con le tute di acrilico a dispetto del freddo e la più alta incidenza di armi di legno – anche se ci sono gli entusiasti dell’equipaggiamento che si sono procurati giubbetti e ginocchiere. C’è la squadra degli esperti, con le uniformi mimetiche uguali e i fucili veri, che prova gli assalti con i fumogeni. In mezzo ci sono un paio di gradazioni. Gli istruttori hanno già fatto la guerra nel Donbass. I volontari firmano un contratto, si addestrano ogni sabato mattina, l’addestramento si alza di livello ogni tre/quattro settimane, se arriva la chiamata in caso di guerra sanno già a che squadra appartengono e rispondono. Ci sono un paio di donne, molti giovani ma non adolescenti, molti quarantenni. C’è quello con le scarpe da ginnastica leggere nella neve, c’è quello con l’equipaggiamento tecnico comprato da poco al negozio che fa la faccia da guerra quando lo fotografi. Nelle interviste spiegano che la differenza con il 2014 è che allora nessuno pensava davvero che la Russia avrebbe fatto quello che ha fatto, prendersi un pezzo intero dell’Ucraina. Quell’anno ha fatto da sveglia collettiva, l’idea generale citata da tutti è che la lezione è chiara, se non si reagisce finisce male.

 

Spiegano anche che il loro ruolo sarà essere impiegati in operazioni diversive: sanno di non essere la forza principale, ma piuttosto un appoggio che tapperà i buchi e farà guadagnare tempo ai soldati veri. Meno male che ne sono consapevoli, perché a vederli e a immaginarli contro le divisioni corazzate russe viene in mente la vecchia frase di Mike Tyson, il pugile e campione dei pesi massimi, a proposito dei suoi avversari: “Tutti hanno un piano finché non prendono un pugno in faccia”. C’è un’altra cosa che colpisce: quando parlano delle operazioni militari nel Donbass, contro i nemici separatisti che sono armati, appoggiati e sponsorizzati dai russi, dicono “operazioni antiterrorismo”. La creazione di queste forze è stata accelerata da una legge di questo gennaio, che integra una legge precedente che autorizzava l’uso militare dei civili volontari. La nuova norma stabilisce che ogni città deve avere la sua forza di cittadini armati. In questo clima di emergenza c’è un aspetto preoccupante. Come in medio oriente, quando nasce una milizia armata nessuno sa come andrà a finire. Queste squadre di persone normali vestite a metà tra il trekking e la guerra assomigliano agli americani del 6 gennaio 2021 che scalavano il Congresso. Non sono la stessa cosa – è meglio scriverlo di nuovo per chiarezza: non sono la stessa cosa – ma se l’invasione russa non ci sarà allora nel giro di qualche anno l’esistenza di volontari armati che si conoscono fra loro diventerà un motivo d’ansia. Sono gli effetti collaterali della situazione di quasi guerra con la Russia e le conseguenze – se mai ci saranno –  le scopriremo soltanto fra anni.

 

 

Bunker

Su Google map si vedono circa cinquecento bunker sparpagliati per tutta Kiev. Risalgono ai tempi dell’Unione sovietica, furono scavati fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta durante la Guerra fredda per proteggere la popolazione della capitale ucraina da eventuali bombardamenti americani, adesso servono a proteggerla da eventuali bombardamenti russi. Anche i privati preparano bunker, l’idea di base è che nessuno sia mai più lontano di mezzo chilometro da un rifugio. Entriamo in un bunker del 1956, è segnato da scritte rosse sui muri dei palazzi vicini, vi si accede grazie a una rampa di scale che porta a un paio di porte a tenuta stagna a sei metri di profondità. Dentro è rimasto tutto come nel 1956, rubinetti, panche, tubature, servizi, piastrelle in tinte smorte: i bunker di Kiev sono bolle temporali rimaste chiuse da settant’anni. Fuori, in mezzo a un praticello coperto dalla neve, c’è un comignolo di cemento con le prese dell’aria. Sono bunker pensati per una permanenza di poche ore.

 

Guerra permanente

E’ un’idea che fa fatica ad attecchire in Europa occidentale, ma la guerra non “rischia di scoppiare” fra Russia e Ucraina: c’è già e rischia di passare a un livello superiore che coinvolgerà tutto il paese e non soltanto il fronte dell’est dove negli ultimi otto anni sono morti quattordicimila soldati ucraini. Questo stato di guerra permanente prende mille forme. A gennaio ci sono stati circa cento allarmi-bomba a settimana: telefonate anonime che avvertivano della presenza di un ordigno e costringevano a evacuare edifici e centri commerciali, operazioni psicologiche da quattro soldi per irritare. A metà gennaio Microsoft ha scoperto durante un controllo di routine un malware già posizionato dentro i computer di molte agenzie del governo ucraino e in stato dormiente ma pronto a essere attivato. Il malware avrebbe reso i computer inservibili e paralizzato molti settori. Il giorno prima c’era stato un attacco di prova che includeva questo messaggio di minaccia: preparatevi al peggio. Questi attacchi sono capaci di bloccare la distribuzione di energia elettrica e di riscaldamento (durante l’inverno ucraino) e di congelare i pagamenti di stipendi e pensioni. E quello che si è visto finora è soltanto una prova generale di quello che succederebbe se la Russia decidesse di colpire a piena potenza con gli hacker che alleva in batteria a questo scopo. Il che fa temere molti ucraini, che dicono: anche se la guerra vera non arrivasse, la Russia troverebbe il modo di farcela pagare e di farci soffrire. “E’ come abitare a fianco di un bullo enorme”. 


 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)