Ci sono anche le criptovalute all'origine delle rivolte in Kazakistan

Davide Cancarini

La crisi kazaka rischia di avere fortissime ripercussioni non solo sui fronti geopolitico ed energetico, ma anche su quello delle mining farm – strutture di elaborazione dati per la creazione delle monete digitali

La rivolta, in fase di durissima repressione, tentata in Kazakistan è iniziata per l’improvviso impennarsi del prezzo del carburante. Che nulla ha a che vedere con la spregiudicata politica energetica di Putin. In realtà, però, da mesi nel paese si registravano problemi sul fronte della soddisfazione della domanda interna di elettricità, legati alla forte espansione di un settore specifico: quello delle criptovalute. Le mining farm – strutture di elaborazione dati per la creazione delle monete digitali – presenti nel paese sono infatti aumentate esponenzialmente dopo che l’estate scorsa la Cina aveva deciso di metterne al bando l’attività perché troppo dispendiosa in termini energetici.

 

Ecco allora il boom kazako. Il paese ha scalato in poche settimane la classifica globale dei più grandi produttori di criptovalute, assorbendo buona parte della mancata produzione cinese. Al punto che, stando all’ultimo ranking elaborato dal Centre for Alternative Finance dell’Università di Cambridge, la repubblica centro asiatica è al secondo posto a livello mondiale con il 18 per cento della produzione complessiva. Ponendosi tra gli Stati Uniti che, forti del loro 35 per cento, hanno preso il posto della Cina alla guida della graduatoria e la Russia, che contribuisce con l’11. 

 

Ma perché proprio il Kazakistan, fino a poche ore fa sicuramente stabile ma comunque caratterizzato da decenni da tensioni, più o meno latenti, pronte ad esplodere? I minatori di criptovalute guardano soprattutto a tre elementi per decidere dove stabilirsi: il prezzo dell’energia, il clima e l’atteggiamento delle autorità rispetto al settore. Su tutti questi fronti il paese è (o perlomeno era) vincente: bassissimo prezzo dell’energia elettrica, nessun rischio di surriscaldamento degli impianti grazie al freddo estremo di parte del territorio kazako e un atteggiamento conciliante da parte delle autorità, incapaci di diversificare seriamente l’economia e aperte quindi a soluzioni come gli investimenti dei produttori di criptovalute.  

 

In realtà l’impalcatura già scricchiolava, perché, anche ben prima della gravissima crisi che sta attraversando il paese, questo grande afflusso di mining farm aveva generato insofferenze interne. Al punto che, lo scorso ottobre, le autorità avevano aperto sia alla possibilità di mettere un freno all’attività di estrazione sul territorio kazako sia a quella di importare energia elettrica dalla confinante Russia, alla luce dei blackout verificatisi e del parziale razionamento a cui erano state costrette. Il consumo di elettricità è infatti esploso nel 2021, con un’impennata dell’8 per cento, a fronte di aumenti medi annui solitamente intorno al 2. Il boom del mining di criptovalute ha messo in luce tutte le debolezze del sistema energetico interno del Kazakistan, gigante degli idrocarburi forte di ingentissime riserve di petrolio e gas naturale. Ma che utilizza soprattutto il carbone per la produzione di energia elettrica, per cercare di tenere il prezzo di quest’ultima artificialmente sotto controllo.

 

La china negativa che sembrava aver preso la situazione ha ovviamente subìto una forte accelerazione dovuta alla crisi delle ultime ore. Quello che fino a poche settimane fa sembrava potesse rappresentare un paradiso – per quanto traballante – per i minatori e una boccata d’ossigeno per il settore in generale, pare ora diventato in via definitiva esattamente il contrario. Il blocco di internet da parte delle autorità e l’interruzione delle operazioni di estrazione hanno fatto immediatamente crollare la capacità di produzione a livello mondiale e il prezzo del bitcoin – la regina delle criptovalute – ha registrato un calo di quasi il 10 per cento. Facile immaginare che la volatilità continuerà a interessare il settore nei prossimi giorni e che in parallelo si registri una fuga precipitosa delle società che gestiscono le mining farm attive in Kazakistan. Questo soprattutto perché, come in qualsiasi altro settore economico e finanziario, la stabilità è forse il fattore principe quando gli operatori decidono in quale paese stabilirsi per portare avanti la propria attività. A livello internazionale, la crisi kazaka rischia quindi di avere fortissime ripercussioni non solo sui fronti geopolitico ed energetico, ma anche su quello delle criptovalute, settore finanziario tanto sotto i riflettori quanto ancora fragile e di difficile comprensione.