Review del foglio

Ho visto i fantasmi in Viale dell'Esperanto

Oltre la siepe arrivano delle voci, e c'è una donna che gioca a badminton. Il limbo dei nordcoreani in Italia: vietato uscire, vietato soprattutto esistere

Giulia Pompili

Il sabato è il giorno della riunione, che significa anche rieducazione: devono esserci tutti. Qualsiasi cosa verrà usata contro di te. Chiusi qui dentro ci sono anche due calciatori nordcoreani. Hanno 23 anni, avevano dei contratti, ma è impossibile gestire dei sorvegliati speciali

Questo articolo è stato pubblicato sul terzo numero del Foglio Review, il mensile diretto da Annalena Benini che trovate in edicola oppure in digitale qui.


 

Su viale dell’Esperanto c’è il silenzio immobile del sabato mattina a Roma. Passa un motorino per le consegne, una coppia risale la strada a piedi, tutto il resto è fermo, tranne che in un punto. La recinzione diventa più alta, la vegetazione pure e anzi sembra inghiottire l’edificio al di là del muretto. Un albero copre il cartello stradale che indica il parcheggio riservato al corpo diplomatico. Le strisce gialle sull’asfalto sono cancellate dal tempo. Dal giardino dietro la siepe arrivano delle voci e dalle fessure intravedo una donna con una racchetta in mano: sta giocando a badminton.

 

Il sabato è il giorno della “riunione”. Tutti i nordcoreani che vivono a Roma devono ritrovarsi al numero 26 di viale dell’Esperanto, la sede dell’ambasciata della Corea del nord in Italia. Dopo la riunione c’è il pranzo, poi si gioca a badminton e a ping pong. La riunione è fondamentale, non ci si può sottrarre: è il momento della “rieducazione”, mi ha raccontato una persona che conosce bene la diplomazia nordcoreana e che, avendo imparato a prendere le misure del regime, ha chiesto di rimanere anonima. Alla riunione si fa il “debriefing”, cioè “chi ha incontrato chi, di cosa s’è parlato, quali eventi riportare al governo centrale e quali omettere”. La rieducazione è uno strumento imprescindibile delle dittature – qualcuno la chiama lavaggio del cervello perché è molto di più della propaganda, ha a che fare con l’intimidazione, con la paura che qualsiasi cosa detta durante la “riunione” possa essere poi usata contro di te. Nel caso del regime di Pyongyang, la rieducazione in età adulta è il ripasso di quel che s’è imparato fin dal primo giorno di scuola: la dinastia dei Kim è sacra, intoccabile e infallibile, disobbedire a un ordine significa finire in un campo di lavoro, non denunciare una violazione altrui significa finire in un campo di lavoro, e se non sarai tu a pagare, lo farà la tua famiglia. Una rifugiata nordcoreana in Corea del sud qualche anno fa mi ha raccontato che ha avuto bisogno di anni di terapia per levarsi dalla testa la convinzione che Kim Jong Il – il padre dell’attuale dittatore Kim Jong Un – potesse leggerle nel pensiero. 

   

L’obbligo di andare alla riunione è assoluto, ma la pandemia ha fatto sì che la gran parte dei partecipanti rimanesse chiusa dentro l’ambasciata. I diplomatici sono in lockdown perenne: è vietato uscire, se non per motivi di necessità, è vietato tornare in Corea del nord. Mangiano, dormono, lavorano, aspettano e temono, tutti dietro questa siepe. Ma ci sono anche altre persone, qui dentro. Sono bloccate in un limbo sanitario, politico e diplomatico, sono fantasmi di cui non si occupa nessuno perché pochi sanno della loro esistenza e perché il regime non vuole che di loro trapeli qualcosa, men che meno accetta l’aiuto di qualcuno – soltanto la Comunità di Sant’Egidio cerca di offrire conforto e cibo.

 
“I soldi che arrivano dal governo centrale sono sempre meno, cinquecento euro al mese più o meno, forse i diplomatici in Italia sono anche stati puniti, perché negli ultimi anni non sono stati molto efficaci”: nel 2017 il governo italiano non accreditò il nuovo ambasciatore e lo espulse come segno di protesta contro il sesto esperimento nucleare nordcoreano. Un anno dopo, il diplomatico più alto in grado fuggì. Senza ambasciatore, un’ambasciata può sbrigare giusto gli affari correnti, ma non può rivolgersi a ministri o sottosegretari del paese ospitante: è tecnicamente bloccata. E’ in un limbo, appunto, la casa dei fantasmi, e sta a meno di un chilometro dal palazzo in cui a fine ottobre i grandi della terra si sono riuniti per il G20. 

     
Viale dell’Esperanto, con i suoi sempreverdi e nessun bar, è stata la strada della fuga, nel novembre del 2018, dell’allora funzionario Jo Song Gil. Uscì dal cancello con la moglie e non tornò mai più: lasciò in ambasciata la figlia diciassettenne, che di lì a poco fu rimpatriata in Corea del nord. Probabilmente non fece in tempo a portarla via con sé. Nelle settimane successive, a Jo Song Gil fu negato l’asilo politico da diversi paesi. Decise di non presentarsi direttamente all’ambasciata sudcoreana, perché Pyongyang punisce tutti, ma non ha pietà per chi si rifugia dai nemici. Nell’ottobre del 2020 uno scarno comunicato dell’intelligence sudcoreana annunciò che Jo Song Gil e la moglie erano sotto protezione a Seul: il diplomatico non ha mai rilasciato dichiarazioni e di sua figlia minorenne non si è saputo più nulla, anche lei adesso è un fantasma. 
 

L'ingresso dell'ambasciata di viale dell'Esperanto (foto di Giulia Pompili)

 

Da quando Jo Song Gil è scappato, è stato rimosso il pannello all’ingresso dell’ambasciata con le fotografie dei successi di Kim Jong Un, come se dopo l’onta della fuga l’intera ambasciata avesse voluto sprofondare nell’anonimato, diventare davvero la casa dei fantasmi. Quasi non si vede nemmeno la bandiera rossa, bianca e blu: è piccola, lontana, piegata su sé stessa.  

   
Alla riunione di oggi solo tre persone vengono da fuori, i tre rappresentanti nordcoreani alla Fao e al World Food Programme che abitano non molto lontano, sempre all’Eur. Dentro l’ambasciata, invece, vivono segregati i quattro diplomatici registrati nel cerimoniale del ministero degli Esteri italiano, e la signora del badminton. 


Ma ci sono altri fantasmi chiusi qui dentro: sono due ragazzi, due calciatori nordcoreani. Choe Song Hyok e Han Kwang Song hanno ventitré anni, erano arrivati in Italia nel 2016 con la promessa di giocare a calcio da professionisti e diversi club (tra cui la Fiorentina, il Perugia, il Cagliari, la Juventus) li avevano messi sotto contratto salvo poi rivenderli o darli in prestito: era troppo complicato gestire questi ragazzi con seri problemi relazionali, sorvegliati giorno e notte da altri nordcoreani e ai quali è vietato parlare con manager e giornalisti. C’era stato anche un problema più serio: l’ufficio del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che si occupa di applicare le sanzioni economiche contro Pyongyang ha fatto sapere che i guadagni dei calciatori tornavano in Corea del nord perché i nordcoreani all’estero possono trattenere soltanto una piccola parte del proprio stipendio, il resto va allo stato. Mentre Choe era già bloccato a Roma a causa della pandemia, il 26 gennaio del 2021 anche Han è stato messo su un aereo per Roma dalle autorità del Qatar. Era arrivato a Doha un anno prima, dopo essere stato venduto dalla Juventus per sette milioni di euro. Da allora Choe e Han vivono insieme ai diplomatici nell’ambasciata nordcoreana a Roma. Chissà se giocano a calcio, in due. Hanno il green pass, perché la Farnesina ha vaccinato tutti, ma non possono né tornare a casa né uscire, fare i ventenni in Italia, trasgredire, fuggire, denunciare. Se scappassero, se violassero la regola del fantasma, che cosa accadrebbe alle loro famiglie in Corea del nord? 

  

  Han Kwang Song in campo nel 2019 con la maglia del Perugia (LaPresse)

   

Eppure fino a qualche anno fa c’era un gran viavai in viale dell’Esperanto numero 26: diplomatici, studenti di Architettura alla Sapienza, dottorandi e pure qualche cittadino nordcoreano in Italia (ufficialmente) per business. L’ambasciata era frequentata da amici storici della Corea del nord in Italia, vecchi iscritti al Partito comunista, qualche imprenditore, la Croce rossa. Poi l’aggressività del regime e i test missilistici e nucleari hanno portato alle sanzioni internazionali, e con esse è iniziato il declino di tutti gli affari, compresi quelli meno leciti. Le immagini satellitari spesso ci mostrano il buio della Corea del nord, ancora più tetro e spaventoso se paragonato alle mille luci del Sud: è che tutto quel che riguarda il regime di Pyongyang sa di fantasma, e ti legge nei pensieri. Anche a viale dell’Esperanto, nel cuore dell’Eur, a Roma. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.