L'attentato di Waukesha e il rap della sindrome di Lucignolo

Stefano Pistolini

Uccidere per dire “io esisto”. Il terrorista dei mercatini di Natale in Wisconsin è un prodotto residuale della disfunzione di un sistema che vende merce avvelenata, ricoprendola di lustrini e disseminandola di dollari. Darrell Brooks e l’imperdonabile casino americano

Si possono fare ragionamenti inopportuni, parlando di Darrell Brooks jr, il rapper in stato di fermo per la strage del suv a Waukesha, nella periferia di Milwaukee (5 morti, 48 feriti), allorché s’imbocchino le generalizzazioni riguardo alla sua militanza musicale. La cultura hip hop è il male? E’ il nuovo satanismo americano? O è finita al centro di un equivoco pericoloso? Perché chi diavolo sono questi nuovi miliardari della musica, che nella maggior parte dei casi hanno avuto accesso al grande pubblico e a guadagni favolosi passando per la porta posteriore, senza una formazione artistica, cavalcando l’onda emotiva che circonda questo suono e le mode che gli ballano attorno?

 

Il rap oggi è la cassaforte del mercato musicale e le sue star a volte brillano per il loro talento, in certi casi per il loro virtuosismo e il potere poetico che sanno sprigionare, ma spesso si limitano a riproporre forme e contenuti stereotipati, spingendo sempre più forte sul pedale della trasgressione, di una provocazione in passato etichettata “gangsta”, ma che adesso sprofonda in un indistinto nichilismo di sbandierata immoralità, condito di avidità, machismo, ostentazione e superba cattiveria. Il cattivo maestro vende bene nelle ultime propaggini del rap contemporaneo, in particolare oltreoceano, nelle provincie e nelle periferie, presso l’ultima platea che cerca una sua musica per sonorizzare i propri anni ruggenti. Non è un caso che su quel palcoscenico di Houston, di fronte a cui qualche giorno fa va in scena una tragica e vergognosa macelleria umana (10 morti, 300 feriti) si esibisca il rapper Travis Scott e che le sue reazioni a posteriori dei fatti siano tutt’altro che esemplari. Non è un caso che alla categoria dei “rapper morti ammazzati” Wikipedia dedichi una pagina con una lista impressionante di nomi accompagnati dalla causale “Shot and killed”.

 

Non è un caso che a questo club di deragliato narcisismo, che abbina l’ambizione del successo e l’affermazione della personalità, su un cliché ormai banale, abbia a lungo provato a iscriversi, con scarsi risultati, l’attentatore di Waukesha, un 39enne con un sacco di reati alle spalle – droga, aggressioni, violenze familiari – appena uscito di prigione con una cauzione ridicolmente bassa (mille dollari). La psicologia che emerge del personaggio Darrell Brooks è preoccupante per gli stereotipi che contiene: lui si descrive come un “underground hip hop recording artist”, nei videoclip autoprodotti che posta sui social (titoli come “Gon Kill U”, ti ammazzo) dimostra una discreta perizia tecnica, si fa chiamare Math Boi Fly, o Jay Fly, o Math Boi, o B.L.A.$., sostiene d’essere la “promessa del Midwest, pronto a mettere Milwaukee sulla mappa del rap”, ostenta ,come fossero portachiavi, i soliti imbecilli AK-47, e si vanta del suv rosso che qualche sera fa sarebbe diventata la sua personale arma di distruzione di massa. Nei suoi post dice di odiare soprattutto la Polizia e poi Barack Obama e Donald Trump, mollaccioni e imbroglioni, e di considerarsi un “filosofo sballato” che dedica le ultima parole prima d’andare ad ammazzare, al giovane Kyle Rittenhouse, scandalosamente appena assolto per legittima difesa dall’accusa di omicidio di due persone a Kenosha, durante una protesta antirazzista, solo 50 miglia più in là, sempre nello stato del Wisconsin: “Non sono per niente sorpreso”, scrive Brooks, sposando la tesi che l’attrazione dei suoi connazionali per il possesso delle armi superi qualsiasi misura della giustizia. Uccidere è contemplato: a colpi di mitra o investendo una parata. Uccidere pur di affermare la propria presenza. Una sintesi? Brooks è il risultato di un imperdonabile casino americano. E’ uno spostato animato da confusione e violenza, prodotto da ambizioni sbagliate e mal riposte, prepotenza, incapacità di raziocinio e consapevolezza, alimentato dalle false prospettive lasciate trasparire da una società dello spettacolo incapace di evolversi e sempre più portata a estremizzare la propria offerta, per allettare un pubblico che continua a confondere desideri e consumi.

 

Il baraccone dell’hip hop è finito, suo malgrado, al centro di questo pasticcio sociale, attraverso la modificazione dell’intento iniziale – la rappresentazione in forma d’arte di uno stile di vita emarginato, problematico, costellato di sogni e aspirazioni. Vince la sindrome di Lucignolo: si trasforma in protagonista un personaggio impreparato a sostenere la responsabilità del ruolo, se non attraverso l’esasperazione del proprio status trasgressivo. Dietro di lui arriveranno i tentativi d’imitarlo, da parte di tanti che credono di poterlo fare, anche perché non vedono altre soluzioni alla loro esistenza. Una miscela infernale, prodotta da una società oltre gli allarmi di guardia, in crisi di contenuti, in delirio etico, ostinata nella difesa a oltranza di un individualismo asincronico con la realtà, all’origine della tragica proliferazione di armi che la sta massacrando. Si finisce per pensare che Darrell Brooks sia un prodotto residuale – ma sempre più su larga scala – dello scontento e della disfunzione di un sistema che, pur di sfamare gli appetiti del suo popolo, vende merce avvelenata, ricoprendola di lustrini e disseminandola di dollari.

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