Anche i liberal della Virginia l'hanno capito: l'aborto non decide più le elezioni

Il democratico McAuliffe aveva puntato tutto sullo spauracchio rappresentato dagli abortisti. Gli è andata male

Matteo Matzuzzi

Uno studio della Notre Dame University l'aveva già dimostrato: gli americani non sono abortisti. Pensano solo sia il male minore

Roma. Anche tra i democratici della Virginia, man mano che trascorrono i giorni dalla dolorosa sconfitta alle elezioni per la guida dello stato, ci si è ormai convinti che aver puntato tutto sui temi pro choice, agitando lo spettro dell’avvento al potere degli antiabortisti, non ha pagato. Da quando il Texas ha varato l’Heartbeat Act, la legge che vieta l’aborto non appena è rilevato il battito cardiaco del feto, cioè a partire dalla sesta settimana di gravidanza, il governatore Terry McAuliffe ha investito ogni energia, in comizi e spot,  nell’avvertire l’elettorato che se avesse vinto il suo avversario, il repubblicano “moderatamente” trumpiano Glenn Youngkin, la legge texana sarebbe stata subito importata in Virginia. Youngkin “ha un’agenda di estrema destra” sull’aborto, assicurava uno spot trasmesso per giorni a tutte le ore e costato ben 92 mila dollari alla campagna dem. Il cinquanta  per cento della pubblicità di McAuliffe era concentrato sul tema aborto. Era quello, insomma, il terreno della battaglia, l’arma del ko da sfruttare per mettere a terra Youngkin. I democratici erano convinti che bastasse agitare lo spauracchio dell’aborto vietato per assicurarsi la vittoria e una comoda rielezione del governatore uscente. Non avevano probabilmente letto un ampio studio della Notre Dame University, ripreso nei giorni scorsi dall’intellettuale conservatore David French, riassumibile in una constatazione: gli americani sono contro l’aborto. 

 

“Nessuno degli americani che abbiamo intervistato – si legge nel report dell’università – ha parlato dell’aborto come di un bene desiderabile. Le opinioni variano in termini di disponibilità, giustificazione o necessità”, ma di certo gli americani non pensano all’aborto “come a un evento felice o qualcosa che desiderano maggiormente”. L’aborto, rileva lo studio, è comunque considerato gravemente impattante sulla vita reale delle persone, al di là delle valutazioni circa la moralità e la legalità dell’interruzione di gravidanza. E’ un male minore. Essere pro choice, dunque, non significa diventare automaticamente  abortisti pronti a scendere in piazza in difesa della sentenza Roe v Wade. Costruire la fase finale di una campagna elettorale pressoché esclusivamente su tale argomento non può funzionare neppure in uno stato che solo dodici mesi fa aveva premiato Joe Biden (e prima di lui Hillary Clinton e due volte Barack Obama)  con dieci punti di distacco su Trump è un’altra illusione da woke liberal. Si tratta sì di un  campanello d’allarme in vista non solo delle elezioni di midterm del prossimo anno – niente è sicuro, neppure seggi o territori considerati certi, e la Virginia fino a un paio di mesi fa era uno di questi  – ma a essere in discussione è l’idea che liquidare come “trumpiano”  tutto ciò che confligge con il woke possa garantire successi e onori. La vittoria dell’abile Youngkin, trumpiano che non ha voluto Trump ai propri comizi, lo dimostra.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.