Gli elettori della Virginia si recano alle urne il 5 novembre 2019 ad Arlington (Foto di Win McNamee/Getty Images) 

Il test in Virginia

Il primo test elettorale dell'America post Trump parla soltanto di Trump

Luciana Grosso

Il primo vero voto dopo l’elezione di Joe Biden. A un anno dalle presidenziali, gli elettori della Virginia dovranno eleggere il loro governatore. E diventa una specie di palestra per gli strateghi di entrambi i partiti

A un anno esatto dalle scorse presidenziali, americane, il 2 novembre prossimo gli elettori della Virginia, stato di soli tre milioni di abitanti, dovranno eleggere il loro governatore. Questo stato è diventato una specie di palestra per gli strateghi di entrambi i partiti, interessati oltre che a insediare il loro candidato a capire come non perdere le elezioni dei prossimi anni.

  
La ragione per cui la Virginia sta attirando tanta attenzione è legata sia al fatto che si tratta del primo vero voto dopo l’elezione di Joe Biden, sia al fatto che le caratteristiche di questo voto locale sono molto simili a quelle nazionali. La situazione di partenza è, in teoria, favorevole ai democratici, che qui vincono ininterrottamente le presidenziali dal 2008 e, con la sola eccezione del 2009, le elezioni per il governatore dal 2001. Per questo, in teoria, il voto per i democratici dovrebbe essere una faccenda semplice. Eppure c’è qualcosa che non quadra. Secondo i sondaggi, il candidato democratico, che per giunta è il governatore uscente, Terry McAuliffe, da luglio a oggi ha perso gran parte del vantaggio iniziale rispetto allo sfidante repubblicano Glenn Youngkin, passando da un comodo +8 per cento a un risicato (e dubbio) +3.  La ragione di questa perdita di consenso, secondo il sito FiveThirtyEight, sarebbe a Washington, nei risultati altalenanti dell’Amministrazione Biden.

  

Uno scenario che, se confermato dal voto, significherebbe due cose: la prima è che la crisi di popolarità del presidente (al 43 per cento) è più grave del previsto; la seconda è che il Partito repubblicano sta riuscendo a tenere insieme trumpiani e moderati e a conquistare terreno tra gli elettori dei sobborghi ricchi.

  

La figura di Youngkin, in questo senso, è un buon esperimento per capire se l’equilibrismo dei repubblicani post Trump funziona davvero: ha la carica populista di chi non ha mai fatto politica, una solida storia di finanziatore del partito ed è stato riluttante nel riconoscere la vittoria di Biden. Allo stesso tempo, però, non ha il pedigree di un vero trumpiano, perché, pur avendo finanziato i repubblicani ha “dimenticato” di finanziare la campagna dell’ex presidente, dice di non credere ci siano stati brogli nel 2020, e soprattutto, non ha mai chiamato Trump, che pure lo appoggia, a dargli manforte nei suoi comizi.

 

Proprio per questo la campagna elettorale dei democratici va in senso del tutto opposto. Poiché il partito è in debito di ossigeno sia per la ripresa (contemporanea) di inflazione e Covid sia per le continue liti all’interno del partito, i democratici cercano di parlare d’altro. E questo altro è, da tempo, l’asso pigliatutto delle campagne elettorali americane: Trump e l’antitrumpismo.

  

Così ci si avvicina alle elezioni navigando in una specie di paradosso: i repubblicani, che hanno candidato un filo trumpiano, quasi non nominano l’ex presidente; i democratici, invece,  non parlano d’altro. La ragione strategica è chiara: Trump nel 2020 in Virginia ha perso di dieci punti e dunque ricordare agli elettori perché non sopportano Trump potrebbe rivelarsi una mossa vincente. D’altra parte, però, scoprire che il giochino non funziona più potrebbe costituire un brusco risveglio. “Per i democratici – ha scritto il New York Times – la sconfitta di McAuliffe potrebbe essere un colpo devastante alla strategia di correre contro  Trump anche quando Trump non c’è”. Dal risultato della Virginia dipenderà dunque non tanto e non solo il nome del prossimo governatore dello stato quanto le scelte di campagna elettorale dei due principali partiti americani nei prossimi mesi. I democratici scopriranno se la non potabilità di Trump da sola basta o non basta ancora a vincere le elezioni. In modo eguale e contrario, invece, i repubblicani potrebbero ricevere da questo voto l’oracolo che aspettano da tempo: il marchio Trump nel post Trump le elezioni le fa vincere o perdere?

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